lunedì 26 gennaio 2009

La lancia di Sigfrido

Quella che segue è la storia del mirabile giorno in cui, nell'anno di grazia 1568, Giovanni Vasa assunse la corona di Svezia, come narrata da un indegno allievo del Bardo.


La lancia di Sigfrido

Una commedia in un atto

PERSONAGGI
GIOVANNI III VASA
Duca di Finlandia e Re di Svezia
OLAF SVENSON
Duca di Malmo, Feldmaresciallo Giovanni III
CATERINA JAGHELLONA
Sposa di Giovanni, sorella di Sigismondo II di Polonia
CARLO STURE
un giovane svedese di nobili natali
BIRGER BIRGERSSON
un giovane maniscalco di Kalmar
ERIK XIV VASA
deposto Re di Svezia, folle fratello di Giovanni III
UN SERVITORE
UNA GUARDIA
NOBILI DEL SEGUITO


Atto Primo

Scena I
Il salone delle udienze del palazzo reale di Stoccolma

(Entrano Giovanni, Olaf e nobili del seguito)


GIOVANNI
Nobile Olaf, mio maresciallo,
duchi, conti e cavalieri di Svezia,
giunto infine è l’agognato giorno:
il duraturo confronto che ci armò
contro la carne e il sangue nostro,
e che spinse la nostra terra a fremere,
per sette lunghi e perigliosi anni,
all’incedere costante di marziali passi,
oggi vede sua attesa fine. Oggi,
quando lo sfolgorante astro, che i
cherubini muovono nel cielo,
al culmine di sua corsa sarà giunto,
la terra che fu del padre mio Gustavo,
e poi dello scellerato fratello mio Erik,
un nuovo re avrà da festeggiare.


OLAF
Il cielo ti vuole ornato del biondo ferro,
signore nostro che sol del freddo acciaio
per troppo tempo ti vestisti.
Un guerresco elmo cedi,
in cambio di augusto anello,
ed ai comandanti tuoi rendi ciò che
follia e crudeltà, di malsano frutto
del tuo stesso nobile ramo,
tolse iniquamente e senza aiuto di ragione.


GIOVANNI
Cugino mio, mio fratello nel ferro,
non temere: così come un più altro re
accompagnò, per tutta la campagna nostra,
nostre truppe, e a lui sarà resa grazie
in questo giorno, quelli, che lui fece nobili
di spirito e lignaggio, ripagato avranno
ogni credito che vantano. Solo m’angustia,
in questo lieto giorno, l’udire che i danesi
in arme avanzano ancora verso Malmo.
La rocca tua è salda, mio maresciallo,
come le chiglie delle navi dei padri nostri,
ma come vascello alla tempesta esposto
saprà trovar sicuro porto oggi che
il nocchiero suo lontano dal timone siede?


OLAF
Sire mio non temere: i danesi flutti
a un forte scoglio vanno incontro, ché
mai solo mio fu merito di armato
nostro successo. Altra è invece fonte
di mia preoccupazione:
nobiltà d’animo e bontà, a te,
reggono il regale manto che vesti,
ma non è questo tempo di benevolo
sguardo. Tu risparmi il sangue tuo:
solo alla catena lo condanni.
Contro accorti avvisi di virtù t’armi,
ma così a Virtù cedi comando
dell’arte tua che è il regno,
che è arte a cui Saggezza e Malizia
assai più si confanno.


GIOVANNI
Due volte sole gli angeli
hanno menato il sole intorno,
eppure a cento assalti di consigli
ha resistito già mia decisione.
Ancora non vedete, miei conti
e duchi tutti? S’io mi facessi quale Erik,
menando a destra e manca
l’odiosa lama del boia
dal solo sospetto guidata,
sua via prenderei, ché natura sua
è mia nel midollo, come sua e mia
fonte di sangue sono la stessa.
Lasciate ch’egli viva: già troppi
sono i diavoli d’inferno che in vita
lo tormentano qual’egli fosse già morto.
Al Signor nostro piacendo, breve
sarà il di lui calvario, che Iddio breve fece,
dopo tutto, calvario di Svezia.


OLAF
(a parte) Tosto si fa l’orecchio del
galantuomo che malizia non intende.
Se il candido sire nostro
del sangue d’egli segnar non vuole
l’aureo cerchio che in capo porta,
ad altri, a minori, tocca fare
che l’alta terra nostra non veda ancora
fratelli armati scendere in lizza.


GIOVANNI
Ora che l’alto momento
di questo dì s’appressa,
lasciatemi duchi miei, fratelli:
come antico cavaliere
prima di prendere di San Giorgio l’arme,
a terra nostra, a nostro sangue
e al Signore nostro, il mio pensiero
solitario si volga. Lasciate che,
eremita nel petto mio, il mio cuor faccia
di colpe mie e di meriti la somma,
ché giusto è che al regale seggio
sol s’accosti il rispettoso cuore.


OLAF
L’arcistratego ti sia guardia,
signore che di Svezia ti fai guardiano.
(ai nobili) A preparare nostri giuramenti,
fedeli devote promesse, tutti
volgiamo l’animo chiaro,
e a ciò che è nell’animo suo
il nostro sire consegniamo.


GIOVANNI
I santi vi siano scorta.


(Escono i nobili e Olaf si avvia)


OLAF
(a parte, uscendo) Meglio i diavoli d’inferno,
per badar a quel ch’io intendo.
L’anima mia danno
consegnando a prematura sorte
col fiele il fratello suo,
ben lo so, ma se a Svezia tutta
altri lai risparmio,
l’eterna fiamma mi parrà dolce camino.


(Esce Olaf)



Scena II
c.s.

(Entra un Servitore)


SERVITORE
Signor mio, perdona chi t’angustia.


GIOVANNI
A te perdono concedo,
che messo soltanto sei.


SERVITORE
Sia il perdono tuo sì grande
da ospitare pure chi mi manda.


GIOVANNI
Se il cielo fosse grande
la metà di mio perdono,
sulle spalle d’Atlante
null’altro avrebbe posto.


SERVITORE
E Svezia nostra ti benedice
per questo e gli altri doni
ch’Iddio fece all’animo tuo.


GIOVANNI
Risparmi Svezia le sue benedizioni
e questo messo risparmi la favella:
limitarti potresti a rendere
un nome e un volto a colui
che qui ratto ti mena?


SERVITORE
Ben lo potrei, se il sire mio lo comanda.


GIOVANNI
Se comando deve essere
lo sia, ma dimmi chi mi cerca
o, per l’anima mia, io stesso
costretto sarò a varcar la soglia
per dare a questo enigma soluzione.


SERVITORE
Nessuno va cercando
il prossimo nostro signore,
ma s’egli intende sapere
chi richiede di poterlo incontrare,
è alla Duchessa, prossima regina,
che la mente sua deve volgere
il magnanimo e buon pensiero.


GIOVANNI
La signora tua, messo magniloquente,
fai pure avanzare e concedi,
agli orecchi nostri stanchi,
licenza di tuo aulico verbo.


(Esce un Servitore)


GIOVANNI
(divertito) Doni, da concedere
alle genti di nostra algida Svezia,
il cielo ne aveva d’avanzo,
s’ebbe modo di fornire
un solo servo, tanto pronto,
dell’eloquio dei poeti
e dell’arguzia dei filosofi.


(Entra Caterina)


CATERINA
Luce dell’animo mio, ti vedo lieto.
Cosa dona al cuore tuo levità tale
da accogliere l’amore
col medesimo sorriso che,
lungi da regali affanni,
concedevi agli occhi miei giovinetti
nei bei giorni dei primi incontri nostri?


GIOVANNI
La bella gente di nostra terra
mi dona liete risa e cuor leggero,
che pure si fan cosa ch’è nonnulla
quando sul candido sembiante tuo,
del quieto splendor di mille stelle ladro,
ch’amore in terra è di carne e sangue,
l’occhio mio si posa lesto
e gioventù ridona al cuore.


CATERINA
Che direbbe la gente di tua patria
se sapesse ch’ha re ch’è anche poeta?
Non v’è dunque qualità che in tuo petto
non abbia a trovare salvo suo asilo?
Grande è il re, dissero i profeti,
che, tanto con favella che con ferro,
sa essere degno pari del maestro
che l’ebbe a forgiare a quel fardello
che gran regalità si porta appresso.
In te, guerresca arte e lieve parola
s’abbracciano a virtù e arguta mente,
che, quando acconci il cuore
a far giberna a diplomatici consigli,
ti fai signore di genti e terre
senza ch’occorra di metter mano al brando.


GIOVANNI
La polacca musa d’arte mia
l’ho qui accanto e, senza di lei,
non avrei cuore a far di questa terra
nulla che è degno d’un signore.
Ma dimmi, luce mia, quale questione
ti spinge a cercare il tuo compagno?
Cosa, in questo giorno, ti porta
a cercarmi nel momento
di mia riflessione?


CATERINA
Ti giunse, mentre eri
coi tuoi conti in gran consiglio,
notizia che Sigismondo,
l’alto figlio del padre mio
di Polonia gran signore,
inviò squisiti doni e lesta legazione
a rendere i prescritti omaggi
ad un nuovo unto sovrano?


GIOVANNI
Non l’intesi questo fatto,
e assai me ne dispiaccio.
Chi li guida? Ivàn? Augusto?
Forse Sigfried, gran generale?
Chi di lor ripose l’armi sue,
e pose al suo cavallo ricchi finimenti,
a onorare degnamente
l’imminente grande occasione?
O forse tutti e tre, quali orientali magi,
si presentano a recar gradite regalie
e a condivider gli agi
di una calda corte in vece di freddo campo?


CATERINA
Augusto, il cugino mio,
quale baldo Baldassare
s’accompagna a suoi pari
e omaggia il mio signore.


GIOVANNI
Ai tre miei grandi amici, ti prego,
presenta mie scuse: presto
li avrò a me dappresso e
lieti parleremo, a ridestar,
quali fantasmi di passati giorni,
l’ardimentose gesta che,
prima di gran festa e trattenimenti
lieti nostri, ci videro compagni
e consorti in bricconate che
mai ebbi a narrarti di gioventù nostre andate.


CATERINA
A quel che di mio signore è intendimento
adempierò prontamente, ma avanti
ch’io possa a loro recar messaggi,
permetti ch’io a te riferisca
quanto qui ero giunta a riportare.
Il buon Sigismondo, per mezzo mio,
ti manda a dire che appresso al
marziale trio viene un giovane
onesto, di buon valore, pronto
di braccio e meninge, che raramente
vide pari il terra di Polonia;
egli non è di quella landa però figlio:
dal nobile seme di Svezia
viene sua alta pianta. Sture è sua famiglia,
che in Goteborg non più comanda,
e porta in sé seme di grandezza,
come adorna d’augusto suo nome
di imperatori molti. Carlo Sture,
è questo il giovane fiero che
a tuo cospetto viene, e a te,
quale scudiero, si presta in questo giorno.
Di nobile padre, caduto per mano folle,
egli è certo e giusto erede,
ma per sé egli non vuole ciò che,
pure, avrebbe diritto di volere:
al nuovo nostro sire implora l’occasione
di poter prestare sfoggio di forte
sua schiatta, guadagnando di sua arte
ciò che l’augusto suo natale
comunque non gli valse.


GIOVANNI
Achille ed Ercole, in sol corpo giunti,
non parrebbero avere maggior valore
di questo solo giovane. E sia:
gli si faccia riferire che udienza a lui
sarà concessa, innanzi a che la Svezia
un nuovo re conosca, e che quindi
d’appresso a questa corte fido si tenga.


CATERINA
Ai tanti tuoi propositi
a dar seguito si presti
l’intera terra e il cielo,
ché in te maestà è ben desta.


GIOVANNI
Ora, colomba mia, a tribolati pensieri
il mio animo lascia. Prossimo
il nostro nuovo incontro già si fa,
come il chiaro sole che
al culmine del cielo s’appressa.


CATERINA
Al volere di gran maestà
il mio fare si conforma.


(Esce Caterina)



Scena III
c.s.

(Entra un Servitore)


SERVITORE
Signor mio, perdona il messaggero
che in riflessione tua si frappone.


GIOVANNI
(a parte) Toh guarda, l’aulico poeta
che di servil livrea si fe’ mantello.
(al Servitore) Al messaggero sempre sarà concessa
magnanima la grazia, ma perdona
forse il servo il suo signore che si chiede
se è forse scritto nel cielo che
il ponderare suo ha da essere tormentato?


SERVITORE
Al nostro gran signore io ho a
rassicurare che non è mia
la volontà che a lui mi manda.


GIOVANNI
E di chi è, in codesta fausta occasione?


SERVITORE
L’appellativo del forestiero che
al signor mio s’appressa, non mi fu
concesso di sapere.


GIOVANNI
Non lo chiedesti?


SERVITORE
In fede, signore nobile e giusto,
lo chiesi, ma la risposta ch’ebbi
mi parve invero strana. A domanda,
diretta e chiara, non venne simile risposta
e, quando rinnovai limpida richiesta,
detto mi fu “Il nome mio valore non ne porta.
Alle tue orecchie, vuoto suonerebbe
e il forte portone a cui fai scorta
quella parola non animerebbe,
che tanti, quali me, ne ha visti il cielo,
e l’alto ospite tuo non ha da trarre
degno giovamento da sapienza
che meno d’un zecchino ha di valore.
Va e riferisci solamente che
un messaggio porto per quello
che, oggi sorto re, un tempo era
Johannisk. il giovane dalla cuffia nera.”

GIOVANNI
(a parte, preoccupato) Johannisk? Chi può...
(al Servitore, pressante) Solo questo ti disse?


SERVITORE
Com’è vero che nella Svezia tutta
nessuno c’è che a te è pari,
signore che col segno, di predecessori
tuoi molti, fai giusto orpello alla
forte sede di quel ch’è tuo pensiero.


GIOVANNI
L’aspetto di quel viaggiatore
qual è? Com’è il suo sembiante?
Gli inverni di terra nostra
versarono sul capo suo
tanta neve da dare, alla sua chioma,
colore che par quello di virginale veste?


SERVITORE
L’augusta maestà che ci governa
ha forse dei profeti il dono?
Il viaggiatore che a lui si presenta,
in cima al collo suo, porta la neve.


GIOVANNI
E sia! La soglia, da lignea guardia vigilata,
per questo viaggiatore si dischiuda:
avanzi e siano diavoli o santi
i suoi passi ad accompagnare.


SERVITORE
Il cielo e la terra di terra nostra
al comando tuo prestano servile orecchio,
e chi sono io per far da meno?


(Esce un Servitore)


GIOVANNI
Come, per il cielo, si presenta
questo misterioso caso?
Solo uno su suolo di Svezia
ebbe ad usare tale nome...
Ma l’anima sua sta coi santi
da anni molteplici ormai:
già nella lotta per l’aureo cerchio
ero impegnato, quando
il buon frate precettore
gli angeli accolsero nell’alto.


(Entra Birger)


BIRGER
(verso fuori) Guardia d’alta porta tanto loquace,
perdona tu il viaggiatore che fai passare:
il gelo di nostra terra, ch’era meco
e che manto e cappuccio mio agghindava,
ti lascio là, sul chiaro marmo,
quale limpida fonte da prosciugare.


GIOVANNI
(a parte) Eccolo che viene... eppure imbiancato
non pare essere il di lui capo.
Pare essere di quelli che ancora
facilmente conta sue, non molte, primavere
e non ha da lottar, con affollata memoria,
quando rimembra i fatti
dei trascorsi suoi anni.


BIRGER
Nobile signore, augusta maestà,
magnanimo tu sia con chi ti porta
notizie che, altri, vollero a te destinate
solo in questo giorno da lungi rimirato.
Io vengo a far da voce a coloro
che più non hanno voce sotto il sole:
di genti che più non sono
ti riferisco le benevole parole;
di genti che nel cuore tuo e mio han posto:
d’un padre e d’una madre sapienza ti riporto.


GIOVANNI
Innanzi che a tali menti tua voce presti,
rammenta la maniera che si conviene,
e, prima di parlare con parole d’altri,
una parola tua a me presta.
Dimmi, viaggiatore giovane che canuto giunse,
con quale nome fosti a santa fonte
presentato, in giorni prossimi ai natali tuoi?


BIRGER
Birger mi fu dato come nome in sorte,
quale era quello del mio buon padre.
Birger Birgersson, ferratore di destriero nobile
come di stolido equestre lavoratore,
tra le forti mura di Kalmar
in dì usuale potreste trovare,
ma oggi alto incarico mi porta assai lungi
dai cari e familiari spalti.


GIOVANNI
Non breve è la strada che percorso hai.
Sia dunque libera la briglia
che frena voce e pensieri tuoi:
un messaggio rechi, ed ora che
mi è dato di conoscere il messaggero,
provvedi a riferire ciò che devi.
Dicesti che da un padre
e da una madre giunge la parola tua...
m’accade dunque di conoscere
fonte di tuo onesto lignaggio?


BIRGER
Non t’inganni la maldestra favella
di colui che colto non è e che ti parla:
la madre di cui parlo è sì genitrice mia,
mezzo per cui l’anima mia vide
luce del mondo, ma il padre
è forse più tuo che mio, valoroso mio signore.
Di religioso padre io vado parlando,
di quello che fu padre eppure era fratello.


GIOVANNI
(tra sé) Un gran faticatore certo è costui,
ma due volte più adatta
gli sarebbe l’arte del cesello,
se con artefici mani sue destrezza
avesse pari a quella che è di sua loquace lingua.


BIRGER
Ante ch’io venga a riferir messaggio,
lascia che illustri al mio nobile sovrano
come esso giunge a nascondermisi in petto.
Nei trascorsi anni di mia giovane vita,
nella città dove grande Unione ebbe patria,
un buon uomo di Dio aveva preso a servire
quale confessore di mercanti,
gran signori e brava gente.
Pure, di prestare parola ad insegnamento
ancora sazio egli non era:
a lui ho da render grato merito
d’arte mia di leggere, scrivere e far di conto.
Svante il suo nome, ben lo intuisco,
nuovo non ti giunge: prima d’essere
dell’animo di buona gente consigliere,
precettore era stato di frutti,
di ben più alto ramo,
quale solo due ce n’è in tutta
patria nostra: uno grande e maggiore,
ma da tarlo abitato, ed uno minore
eppure assai più grande,
che di meritato biondo metallo
pesto si farà cappello.


GIOVANNI
Gli anni, trascorsi da miei giovanili studi,
mi diedero a perdere del buon frate nozione
fino a che di sua fine ebbi voce.
Lieto mi rende apprendere che, in Kalmar,
sua erudita e divina missione,
negli anni lietamente svolse.


BIRGER
E lieto l’era il divino padre,
per buona sorte che gli era incorsa:
del buon conte nostro religioso consigliere,
per le sue marmoree sale, e nella forte
aula d’aurea scorta, aveva libero passo.
Le sacre sue reliquie ch’egli celava,
il buon fratello aveva modo di mirare,
e d’esse ci donava grande conto,
ogni qualvolta il tal santo,
di suo modesto pulpito, ricordava.
Tra quei grandi cimeli d’anime sante
e grandi armati condottieri,
il frate e lo studioso, che di quel buonuomo
condividevano il devoto cuore,
ebbero un gran valore a reperire:
un chiaro ferro, di lancia estrema cima
lucida e tagliente quale fresca di cote.
Il conte nostro quel tesoro teneva
come l’arma del normanno eroe
che di draghi si fece vincitore.


GIOVANNI
Mi par d’averla, in gioventù,
mirata quella quale di Sigfrido la lancia.


BIRGER
Tale fieramente la presentava
il signore di nostre ardite mura,
e alla fine della fabbrica di nostro,
antico e nuovo a un tempo, castello
voleva che in bella sala essa stesse,
a rendere gran lustro a sua figura.
Il giusto precettore, invero,
a lungo quel acciaio tenne a studio:
com’ebbe poi a dir che a te si riferisse,
in giorno di vittoria tua sul tuo stesso sangue,
al normanno di draghi uccisore
egli non credeva appartenesse.
In cuore suo serbato aveva
preziosa e nascosta opinione:
non di pagano esso era,
ma d’uno che a Dio affidava sua tenzone,
a giudicar di segni e d’iscrizioni
che sul ferro e sul legno lesse.
A tempo che gli angeli a lui
si presentarono per portarlo
in alto seggio, matura era sua convinzione
che del cristiano Olof il ferro fosse.


GIOVANNI
Del nobile padre di regale stirpe?
Del primo condottiero di svedesi armate
che marciassero sotto cristiano stendardo?


BIRGER
Ben l’intende il mio erudito duca,
che del saggio frate ebbe a studio
la patria e nobile storica lezione.
In giorni di battaglie per il regale seggio,
il mistico nostro padre Svante
ben vide certa tua vittoria, mio signore,
e diede alla genitrice mia funzione
di farti avere questa preziosa nuova,
in giorno di tua liberazione
di terra nostra da consanguineo tuo
folle tiranno, a ché il forte ferro
di devoto sovrano, un nuovo
devoto sovrano consacrasse.
Quando alla madre mia,
due anni orsono, il fato spense lume,
a me passò il grande compito
e, come vedi, pronto ora l’assolvo.


GIOVANNI
Grande notizia tu porti invero,
quale dono a un re, che non ha pari,
che tesori e gioie di mille altri signori
nulla valgono a ciò che è di nostra Svezia.
A questo tuo messaggio,
ed a volontà del buon precettore,
occorre dare seguito tosto.
(chiamando) Buon servitore, di alata lingua munito,
poni leste ali ai tuoi calcagni
e ratto menati al cospetto del signore tuo.


(Entra il Servitore)


SERVITORE
All’appello di colui che svedesi genti mosse,
il passo del suo servo lesto si scosse.


GIOVANNI
E’ in sala prossima in attesa
un giovane che viene di Polonia
eppure che di Svezia è figlio?


SERVITORE
Invero così è, mio buon signore,
immobile in attesa come pietra,
attento ad ogni passo ed ogni voce
ché la chiamata sua non sia sorpresa.


GIOVANNI
E dunque che suo attendere sia rotto
e al cospetto mio egli giunga!
Suo valore mi concesse di testare
e ad alta questione gli farò misura.


(Esce un Servitore)


GIOVANNI
A te, mio prezioso messaggero,
ho da concedere grata licenza,
ma se volessi rinviare tua partenza,
potrei agio darti a dimostrare
valore quale è noto essere,
di quei di Kalmar, gran patrimonio.


BIRGER
Alto onore maggiore non potrebbe
essere, per umile mio pari,
servire quelli che tutti ci fe’ grati,
del periglioso peso liberando
l’alto trono di quei che Svezia guida.


GIOVANNI
Animo nobile pochi pari
il tuo avrebbe, tra i conti e bei signori
di terre che non siano
di almeno dieci volte
della nostra assai maggiori,
se solo almeno una ve ne fosse.


(Entra Carlo)


CARLO
(a Giovanni) Al grande sovrano d’alta terra
piace di concedere, al forestiero,
udienza che, nel cuore suo,
speranza accende. Cosa mi comanda
il grande e giusto mio signore?


GIOVANNI
A te che di nostra terra figlio
d’altra patria fosti allevato,
a te che di dote tua giusta
non fai richiesta, il tuo signore
occasione a te gradita offre:
s’è vero quel che di te mi si disse,
ed al servizio mio ti porgi,
incarico alto, ed a me caro,
ti propongo per dimostrare
di te, e tuoi natali, il gran valore.


CARLO
Se anche pari fosse, questo compito,
ai tanti ch’ebbe in sorte l’Alcide eroe,
paura non avrei e, forte e lesto,
al volere del mio signore
anima ed essere presterei.


GIOVANNI
Degno è il proponimento tuo,
e lieto fai il tuo comandante
ponendo spada e fede a sua
disposizione. Ad una cerca
vado destinando abilità tua
e tua decisione: d’eroe,
o condottiero, il fiero brando
ti do compito di recuperare.
Il letale ferro che, pari
forse solo a quel del cavaliere santo,
di draghi e pagani fece scempio,
a te richiedo di trovare.
In gran città, qual è Kalmar,
recluso in forte sala esso si siede,
ma alto volere pare essere
che a più fiero fianco faccia scorta.


CARLO
Al mio signore vada ogni gloria
d’impresa che in nome suo
è svolta. Un solo dubbio sull’animo
mio pesa: per il tristo mio caso,
che al sire nostro è noto bene,
la patria mia malamente conosco,
quindi malfermi passi volgerei
alla volta di città di cui mi è data
incerta è limitata cognizione.


GIOVANNI
Da questa tua incolpevole mancanza
non farti dare cruccio più che devi:
grande ricompensa sia la tua
se l’incarico porterai a buon
compimento, ma non minore sarà
per quelli che aiuto ti presta.
(a Birger) L’intendimento mio ora t’è noto,
onesto messaggero di santa voce?
Al signore tuo rifiuto sarà opposto
o soccorso sarà il suo campione?


BIRGER
Tutta limitata scienza mia
a questo cavaliere io presto,
se al grande nostro sire posso fare
in questo modo umile dono.


GIOVANNI
Mi compiaccio di vostra unione
d’abilità e di intendimenti.
Ora che compito vostro è dato,
al fatale momento io mi presto:
andate salutando un duca,
che a tempo di ritorno vostro
un reggente re saluterete.
Ancora non m’è dato d’aver composto
l’animo mio al gran rito che m’attende,
quindi ad alta riflessione ora mi volgo,
ma altre aule frequentando
acchè, forbito servo o altro innesco,
pazienza mia non faccian deflagrare.


CARLO
I santi siano consiglieri di tuo cuore
e mostrino a tuo occhio tua missione.


BIRGER
Il divino padre tua fede faccia salda
e di santi propositi l’animo t’armi.


BIRGER E CARLO
Grande tua maestà faccia lume
agli oscuri giorni di nostra Svezia.


GIOVANNI
Siano gli angeli, e i santi,
su passi e impresa vostra a vigilare.
Benedizioni molte, e speranze
altrettante, su voi possano posare.


(Esce Giovanni)


CARLO
Ed ora che il buon sire
lasciati ci ha fiducioso,
all’opera nostra si volga
intelletto e decisione.


(Escono Carlo e Birger)



Scena IV
Le prigioni del castello di Stoccolma

(Entrano Olaf ed una Guardia)


GUARDIA
Signor mio, nobile duca,
l’intendimento tuo chiaro appare
anche ad un umile quale io sono.
Eppure, giacché d’umile pasta,
e modesto ingegno, m’incorre
d’essere malamente fornito,
l’animo mio barcolla avendo a fare
quanto questo gran signore mi comanda.
Non per mancanza di grandezza
di colui che mi da alta missione,
ma per maggiore grandezza che è
d’altro signore di cui opposto fu il comando.


OLAF
Nondimeno, tu lo dici, gran valore
poni in codesta piccola fatica.
Dunque perché spirito tuo, che
per naturale istinto del pericolo
avverte quando grande sia minaccia
che il prigioniero tuo porta seco,
teme altro che non sia periglio
per quella grande terra ch’è la nostra?
Dal nobile tuo sire temi, forse,
che possa a te venire qualche male?
Di quel signore tanto dolce che,
financo a chi lo spinse a dura lotta
risparmia sofferenza e mal maggiore,
paventi furiosa ira? Di lui che
furioso mai non fu, neppure
avanzando in aperto campo armato?


GUARDIA
Il maresciallo d’arme nostro
bene vede che differenti rami
sono quello mio e quel del prigioniero.
Prossimo al nostro sire egli è
tanto quanto io ne son lontano,
e ciò che fraterna mano frena
a me non è dato d’invocare.


OLAF
Garante mi faccio io, se a te basta,
che danno alcuno t’incorrerà
per questa preziosa impresa.
E come posso, io, far tale promessa
altri ce n’è, che contarli non si può,
che valoroso saluterebbero colui
che da pericoli e timori liberi
il sire che oggi prende corona.
(sentendo passi dall’interno) Inopportuno qualcuno s’appressa.


CARLO
(da fuori) Ero forse io in fallo, o eri tu
a riporre in vano, nel sentimento
tuo, speranza troppo grandi?


BIRGER
(da fuori) E sia, se questo anela anima tua,
lo ammetto mio buon Carlo,
ma rammenta tu chi notizia
di triste sorte incorsa al conte mio
prontamente ti diede.


OLAF
(a parte alla guardia) Andiamo, pria ch’uno giunga,
a condir, del prigioniero tuo, il pasto
con condimento gradito a certi,
che non abbia a dare sapore,
ma abbia a togliere agli occhi il lume.


(Escono Olaf e una Guardia)


CARLO
(da fuori) Ben lo rammento, e diversamente
portarmi non potrei: canuti
ora saremmo se per ogni
puntal replica tua il sole a oriente
una volta fosse sorto,
eppure meno di un’ora sola
trascorse da quando il giusto
sire nostro ci fece congedo.


(Entrano Carlo e Birger)


BIRGER
Abbiamo dunque, noi compagni
in questa nostra regale cerca,
ad essere nemici e rinfacciare
errore l’uno a l’altro, quali
fiere che una all’altro collo
invelenite s’avventano?


CARLO
Pace, compagno mio, pace!
Intendimenti nostri son comuni
e quel che l’uno a l’altro
fa nemici è solo infausta sorte.
Aver da apprendere che
in Kalmar più non siede un conte,
da quando del folle il boia
diede al giusto Anund sua sbarbatura,
ha disposto all’astio il mio cuore.
Poco mi giovò apprendere
che a questo stesso forte era diretto,
della bella città, il gran valore.


BIRGER
Pari al tuo è mio risentimento:
punto ci vale sapere che nostra cerca
ha meta sua là d’onde ne viene,
dato che insania pose a morte
financo suo camerlengo e tesoriere.
Il cercare nostro, da me vanamente
prolungato, nel bianco forziere
di marmo e patrio legno, nulla ci valse
se non ulteriore bile e scoramento.


CARLO
Eppure ora, quali calmi cacciatori,
abbiamo a seguire l’ardua pista
che pure sapevamo ove trovarsi.
Non c’è prova che cosa retta e saggia
sia quando saggezza a follia s’appella,
ma fonte altra di notizia non abbiamo
e, quali viaggiatori che disperati
hanno da bere solo da avvelenato pozzo,
a malsana sorgente scienza nostra,
al limitar di fine sua, va a fare scorta.


(Entra Olaf e resta nascosto in ascolto)


BIRGER
L’avessi saputo innanzi che
impresa nostra inizio avesse,
ai sensi miei non avrei creduto,
eppure, in questo solo correre
del solare astro nell’alto cielo,
due svedesi sovrani avrò incontro.


CARLO
Bizzarri casi sono quelli del fato
che pone nell’inferma mente
del maggiore, tante volte maledetto
quanti sono di patria nostra forti
e porti, notizia che al minore,
di tante benedizioni indirizzo
che il Paradiso stesso avrebbe a muove
alla volta della terra per darvi seguito,
diano in dote la santa reliquia
ch’egli giustamente merita e cerca.


OLAF
(a parte, non sentito dai due) Quale prodigio mai è questo,
che manda due giovani a cercare,
dalle fredde labbra d’un defunto,
notizia per quello che si va
a incoronare santificato sovrano?


BIRGER
Già che lo nomi, su quel santo brando
m’incorre una domanda: l’onesto
Frate Svante, che bene lo studiò,
ebbe lungamente a tormentare
il saggio saper suo e, spesso,
in sua domenicale funzione
ebbe modo di parlare di quel
guerresco e santo ferro.
Io, giovanetto, a udire le vicende
del normanno eroe e di Olof,
gran sovrano, attento mi facevo
come segugio che la preda
fiutata ed inseguita punti.


CARLO
Ben lo comprendo: io parimenti,
in gioventù mia, similmente mi portavo
quando il precettore, ch’un filosofo era
di norvegese schiatta, della paterna
casa mia in Goteborg, della fiera
antica e santa lancia narrava
nascita sua e santissimi natali.
Or che di questo caso si va narrando,
m’incorre di ricordare antico conto:
se ai remoti cronisti si da credito,
quella c’era di Olof, prima fu
del cavalleresco Giorgio, grande
e santo, che dal romano l’ebbe
ad aver per tortuose vie...


BIRGER
Ben l’intendesti, la storia, dal
precettore tuo, come io l’intesi
da quello che fu mio e non solo.


CARLO
Tu dunque ti domandi
quello ch’io stesso mi domando?
Ha del Longino ad essere
il sacro ferro che, per nostro re,
andiamo vanamente ricercando?
E il sovrano nostro, ch’è a noi,
per saggezza e sapienza, ben maggiore,
ha, per questo, noi posto a cerca
che cento volte più santa è
or che vero nostro cercare
chiaro e santissimo c’appare?


OLAF
(a parte, non sentito dai due) Bene intende l’orecchio mio?
Dal sovrano, cui io feci dono
del torbido e forte fiele,
vanno costoro cercando sapere
che, a reliquia tanto santa,
portarli lesti potrebbe
per dare pronto seguito al volere
di quel che grande fa già Svezia?


BIRGER
Quale gallese equipaggiato
del forte loro legno, il centro
di mio pensiero e cruccio ben
l’incogliesti e trapassasti.


CARLO
E dunque cosa ci frena,
ora che ci è dato nuovo sprone?


BIRGER E CARLO
(chiamando) Guardia! Guardia!


(Entra la Guardia, cui subito si affianca Olaf rivelandosi come fosse arrivato assieme alla Guardia che se ne stupisce)


OLAF
(alla Guardia) Avevo dunque inteso bene,
buon soldato: delle voci venivano
da questo tuo posto di scolta.


GUADIA
(ad Olaf capendo ed assecondandolo) Il buon signore mio pare
fresca recluta dal chiaro orecchio.
(a Carlo e Birger) Chi sono i signori miei
Che, a questo tristo luogo affari loro
portano, in giorno che in Svezia
è di grande e lieta festa?


CARLO
Due onesti figli di onesta terra,
noi siamo, sudditi devoti che al
comandamento di buon sovrano
rispondono lesti, come i dardi
che rispondono al comando
di forte e implacabile balestra.
Assolvendo a richiesta che viene
di volontà che assai maggiore è
di quella che è la nostra, all’infausto
cospetto del despota deposto
ci troviamo a doverci recare.


OLAF
Allora, buona guardia, lascia costoro
prontamente passare: a loro cedi il passo
come fosse, per mezzo loro,
che al sire tuo umilmente lo cedessi.
Che abbiano libera via coloro che
il grande nostro signore onestamente servono.


CARLO
(a Olaf) Se bene m’è dato di intendere,
gentile e nobile signore, il maresciallo
di campo di nostro sovrano qui trovo,
e uno migliore, per prontezza e
cortese animo, egli non potrebbe avere.


OLAF
Ed io, dal quel che si dice, sono
al cospetto di quelli che, della
nobile stirpe di Goteborg degli Sture,
va facendosi nuovo e proprio nome.
M’onora aver modo d’incontrare
il giovane di cui tanto si parla,
ma non sia io Nausicaa a trattenere
l’errabondo Ulisse in sua cerca
arditamente intento. Se del folle
prigioniero di questa guardia
t’occorre di condividere malsana
sua scienza, affretta i tuoi passi,
ed anzi permetti ch’io anche
t’accompagni ed abbia ad aiutare
tuo valore in nobile gesta.


GUARDIA
(a parte ad Olaf) Signor mio nobile e giusto, quel
pasto che, col sangue letale di doloroso
fiore e frutto, mi diceste di condire,
va ad essere tosto assunto
da quei che ammorbò terra nostra.
Intende, la sua cara signoria, assistere
allo spettacolo triste che è la fine
liberatoria di malata mente,
che dal fiele ha da provenire?


OLAF
(a parte alla Guardia) I vasti e magnanimi cieli
hanno deciso che il buon Giovanni
nel giusto si trovasse con sua
solenne e magnanima decisione.
Non per assistere ad una fine
affretteremo i nostri lesti passi,
ma per quella morte impedire
che il Diavolo stesso mosse mano
a quelli che di diavoli si fece mezzo,
ma i santi danno un nuovo sprone
a far cosa santa da cosa guasta,
e dunque quella che fu mia decisione
si conformi a quella che viene
d’alta sfera e sovrana autorità.


(Escono Olaf e la Guardia)


BIRGER
(a parte a Carlo) Invero è dato a dire che natali
alti quanto i tuoi sono salvacondotti
per molteplici porte e guardie
quali i miei, ben più umili e modesti,
non sono né mai saranno.


CARLO
(a parte a Birger) Se il nobile uomo là oltre
scortese ti pare per modo suo
ch’ebbe d’ignorare uno e, solo
all’altro, ebbe di dare cognizione,
sappi che ben comprendo tua
condizione: in primi anni di presenza
sul polacco forestiero suolo,
financo quando il lignaggio mio
all’interlocutore era ben noto,
m’incorreva d’essere considerato
al pari del fumo e delle ombre,
quali fossi pur non essendo
ed essendo non fossi. Ignora
quindi chi malamente si porta,
e continua a ponderare ciò
che è alta missione nostra.
Andiamo, quindi, e seguitiamo,
apprestandoci a parlare con chi
del senno perse lume
e di re perse corona.


(Escono Birger e Carlo)



Scena V
Un’altra sala delle prigioni del castello di Stoccolma

(Entrano Olaf e una Guardia portando Erik)


GUARDIA
(a Olaf) Mio signore, perdona mio lento passo:
non fosse per te stato, la malevole
sorte a questo sciagurato avrebbe
di colpe sue tutte presentato somma
e vita sua avrebbe preso a pagamento.


OLAF
(alla Guardia) Segrete sono le vie che percorre,
come chi misfatto seco porta,
l’alta volontà dei bianchi cieli,
e quando essa chiara si manifesta
a quelli che, in santi e angeli,
speme ripone non resta ch’affidarvisi
sapendo che coloro che là siedono
visione hanno di nostre cose
maggiore che si ha noi di noi stessi.


ERIK
(canticchiando) Quale mirabile prodigio fa natura
a quei che guarda tutto il mondo
privo di viltà, con luce pura,
e meraviglia cerca in ciò che è tondo.
(canticchiando a Olaf) L’animo vile non se n’avvede
che rotondità fe’ cosa bella,
e stanco e cieco mollemente siede
e ad ignoranza paga sua gabella.
(canticchiando alla Guadia) Vossignoria ha sguardo fiero,
che segno chiaro è di gran discernimento,
e ben l’intende che mio sapere è vero
e ben vedrebbe se foss’io che mento.


(Entrano Carlo e Birger e questi trattiene l’altro a parlare in disparte)


BIRGER
(a parte a Carlo) Buon Carlo, il nobile spirito tuo
che, quale imperatore di grande regno
che siede a rimirare il mondo di
sua loggia, per i fieri tuoi occhi apprende
ciò che accade a lui d’appresso,
non abbia a cedere passo e senno
a collera per quello che, miserabile,
senno ebbe a perdere per primo.
Ben rifulgono, come la lucifera stella
fa avanti al giorno, bontà e carità
in animo tuo, che tiene oneste virtù
al pari di medaglie al petto appunte.


CARLO
(a parte a Birger) Tu, compagno mio in questa impresa,
temi forse che io abbia a farmi
servo pronto di nera viaggiatrice,
che una volta sola visita l’uomo
in sua esistenza? Temi che abbia in animo
di fare per me giustizia di quello che,
in nome di giustizia, della fiera
pianta di cui discendo fece scempio?
Ebbene, quel che i saggi dice è
spesso vero: quelli di cui i maggiori
non si curano, per lo sdegno di chi ha
da essere grande, visione hanno
più grande, e comprensione hanno
più vasta, di quello che, per gli occhi
del mondo, essi ignorano. Ben vedi
la fibra mia fremere al di lui
cospetto. Ben l’intendi, tu, la mano
mia che al fiero brando va incontro,
ma non crucciarti: muovesi,
ella, di volontà propria che, però,
minore è di quella mia vera,
e mai capace potrà essere di
sovvertire mia onesta e chiara
natura che m’impone magnanima
propensione verso quelli che,
disgrazia e cielo, fece meno alti.


OLAF
(a Carlo) Ecco colui che Svezia nostra
volse a disgraziata terra mano mano
che, in suo animo, i giorni di follia
prendevano ad aver numero
assai maggiore di quelli che
di senno aveano il chiaro lume.
Erik Decimo Quarto, che la regale
pianta di padre suo Gustavo
primo adornò, con fecondo frutto,
e che pure ebbe a dimostrare
che anche il frutto gagliardo e bello
l’odioso tarlo può sempre ospitare.


ERIK
(rivolto ad un punto vicino al suo volto) Bella luce che danzi intorno
rivela natura tua primeva: fatuo
fuoco fosti? O favilla di stella caduta
dall’eteree volte di chiaro cielo?
(alla Guardia) Eppure, v’è chi dice che,
quando una stellare figlia dal cielo
prende e si distacca, dietro al calcagno suo
subito si lancia una minuta megera
di quelle che i sortilegi tesse
del popolo piccolo di grandi leggende.
(rivolto ad un punto vicino al suo volto) Se malia hai in tua mercede,
minimale praticante dell’arcano,
appressati, e se io coglierò il nome
tuo vero, sapienza tua dovrai
cedere in cambio di tua libertà.


CARLO
(attirando l’attenzione di Erik) Nobile, quale tu fosti un giorno,
fatti nuovamente al cospetto
di quelli che nobile volontà servono...


ERIK
(tra sé, fissando Carlo) Occhi stretti si dice essere
di doppiezza e furtività segno.


CARLO
(a Erik, ignorando l’interruzione) Ritorna, con l’occhio tuo,
ai dì in cui, fievole lume che
al primo soffio d’infante vacilla,
il senno spento ancora non s’era...


ERIK
(a Olaf, parlando di Carlo) Solo a me pare o, simili
al vitale crine della gorgone,
la bionda chioma sua da sé
movimento si da anche senza vento?
(non avendo risposta da Olaf, alla Guardia) Che d’è? Il solo nominare
la venefica e funesta criniera
lo fa quale una marmorea statua?


GUARDIA
(ad Erik) Nobile signore, credo che orecchio
prestare dovresti a quello che
il fiero giovane ha da chiederti.


ERIK
Se orecchio prestassi a chicchessia
come potrei intendere l’altrui favella?
Il naso forse, un piede certamente,
a nolo potrei darli, ma l’auricolare
padiglione che guida fa ai suoni
che pigione mi darebbe che compensi
il non udire l’altrui intenzione?


CARLO
(riguadagnando l’attenzione di Erik) Un degno figlio d’alto padre,
quale tu fosti, ascolto presterebbe
a quel che a lui chiedono foresti...


ERIK
E che vanno dunque chiedendo
coloro che del ligneo popolo son parte?
O sono di quei che d’erba, e
di fungina famiglia, hanno natali?
Mi par d’aver udito che messi,
di quelli che la foglia veste lievemente,
in viaggio fossero verso l’avita magione.
(a Birger) Nils mio, buon camerlengo,
quand’essi a giungere avessero
alle porte nostre, fa loro preparare
d’acqua di fonte un ditale,
affinché loro sete abbia a placarsi,
e fa tritare una castagna, per
mitigar lor fame per il lungo viaggio.
(a Olaf e la Guardia) E dite, gran signori, che pari
n’hanno pochi in danese terra,
quali nuove d’Elsinore? In salute
resta, l’augusto vostro re?
Invero me ne dispiaccio: quale
gran dono a farsi sarebbe,
a un galantuomo di quelli
di mia schiatta, notizia di sua fine?
Ad uno dei rami di suo invernale
giardino, gradito frutto alle
svedesi genti, potrebbe pendere
maturo e pronto da cogliere.


CARLO
(a parte a Birger) Ben l’intendesti, buon maniscalco?
In occhi suoi, orbi al mondo,
ebbe a vederti quale suo camerlengo.


BIRGER
(a parte a Carlo) L’intesi, ma giovamento alcuno
vedo di questa nuova scienza nostra,
ed anzi, con licenza, a rammentare
antichi costumi m’affretto e,
allor che a un morto assimilato
fui, infausta fine ben rifuggo.


OLAF
(alla Guardia) Di ogni insano pensiero che
sconvolto suo cervello ebbe in sorte,
invero almeno uno c’è che anche i savi
a condivisione muovere potrebbe.


CARLO
(a parte a Birger) In te ravvide quei che,
maggiore ad altri che prestavano
affabile servizio tra le bianche mura,
a lui più prossimo d’ognuno era,
di bocca sua sola traeva comando,
e di prezioso ferro aveva notizia.
E se quella decolla testa a lui
tornasse a chiedere e dare conto?


BIRGER
(a parte a Carlo) Ardiresti dunque a dare
proditorio tuo supporto a
follia sua per trarne giovamento?
E sia, mio acuto compagno:
si faccia di follia arma
contro follia stessa volta.
Ma tale ardito intento tuo
preparazione alcuna, seppur
minuta, abbisogna, e quindi si vada
a far che, senza gran costume,
due viventi si facciano uno spettro,
per ingannare ingannati sensi.


(Escono Carlo e Birger)


GUARDIA
(a Olaf) Mio buon signore, che caso è
questo che, quale orrorifica visione,
tanto lesti lontan quei due mena?
Di ciò che questo disse non s’intende
senno che piede avesse a fare lesto.


OLAF
(alla Guardia) Parer potrebbe quasi, se così
certamente non fosse, che la cerebrale
febbre, che a questo scellerato saggezza
tolse, abbia avuto agio a contagiare
quelli che il senno ancora tiene.
Ma eccoli che tornano tanto lesti...
E della calce il colore preso
hanno i visi loro e loro vesti...


(Entrano Carlo – che va a mettersi di fronte ad Erik – e Birger che lo segue, nascosto dietro il suo corpo, tenendo la testa appoggiata sulla mano di Carlo, che la tiene come avesse un elmo al fianco)


ERIK
(urlando alla vista della testa di Birger) Oh angeli del cielo!
E santi tutti in corte giunti,
quello che morto era si ripresenta
latore di oscuri segreti quali
la morte sola ha da dare scienza.
(a Birger, compassionevole) Non più uno, caro Nils,
come in vita fosti, ma in parti diviso,
come il boia tenne giusto fare per
compimento porre a suo dovere.


BIRGER E CARLO
Il sire mio alto tenga quello che
a suo dovere mai osa mancare:
financo ora che di testa il collo mio
s’è disadorno, al suo comando mi
vengo a presentare. Disponi,
signor mio, come tu credi, che,
per parte mia, i compiti saranno
assolti e volontà sarà volta ad azione.


GUARDIA
(a parte a Olaf) Dunque quel che cerusici
crederono accadere non potesse
ebbe a farsi fatto? Follia a trasmettere
s’ebbe? Quelli che parevano giovani
di chiaro intelletto, si fanno scellerati
ed al folle prestano diletto?


ERIK
La fredda lama, ch’ebbe a lambire
dimora di tuo discernimento,
ben ti fece giacché in vita lesto
sempre meno fosti che in morte.


BIRGER E CARLO
Pronto mi porto, quale solo è chi
tempo poco ha prima che destino
suo abbia a darsi a conclusione.
A riferire vengo che non tutta
quella ch’era volontà tua ebbi
a fare a piena forma prima che
sovrana ira ebbe a farmi quale sono.


ERIK
Di che parli? Di che vai cianciando?
Anche in nero lutto l’anima tua
servile si porta, com’è giusto, ma
notizia reca di mancanza sua?
Vergognoso fosti molto in vita
ed ora che, in mortifero sudario
t’avvolti, spudorato ti fai?


BIRGER E CARLO
Non spudorato, ma mite, e onesto,
a riferire supplice di mia colpa:
del gran tesoro che di Kalmar venne,
disposto tutto non fu come il
signore nostro deciso s’ebbe.


OLAF
(a parte alla Guardia) Arguzia si fece di follia manto,
e tanto forte è l’ingegnoso capo
che, financo chi saldo ha suo senno,
in tranello teso, distratto, si pone.


ERIK
Quale ultima tua colpa riveli,
ora che dai vivi nulla più temi?


BIRGER E CARLO
Quella che, preziosa ed eroica reliquia,
della forte città a noi pervenne,
ebbi a perdere di mia cognizione,
tanto sovrana volontà a comando
mi tenne. Eppure, ora che altra
e nera sovrana m’incorre di servire,
mi fu concesso di rimedio porre
a mia mancanza. Sia dunque ancora
in me tua decisione, e d’oltre
quella che fu mia tomba, io disporrò
acché quel che l’animo tuo volle
fatto sia come aveva ad essere.


ERIK
Che vai dicendo, visione scellerata?
Il capo tuo, che smarrito ha il corpo,
memoria sua del pari ha perso forse?
Cento volte vidi il lucente ferro
ornare degnamente il chiaro marmo
che, del primo suo padrone, forma
assunse in momento di suo cimento.
Là, nella guerresca sala d’onde
i messi ai generali lesti muovono...


(Escono Carlo e Birger, precipitosamente e senza dire una parola)


OLAF
Quel ch’era in loro bisogno
scoprire, i nostri arguti segugi
trovato l’hanno. Libertà di
questo scervellato ha termine
suo dunque. Tuo dovere fa, vigile
guardia, rendendo a comoda sua forte
dimora quello che il sire nostro
decise avesse sbarre per pareti,
e sii lesto a perdere memoria
di quello che qui oggi non accadde,
che l’accorto smemorato avrà
compenso ch’era stato concordato
per servigio che a fare non s’ebbe.
Per conto mio, curiosità in animo
mio si pose, e di questa cerca
misteriosa vo a scoprire conclusione.


GUARDIA
Non tema il signor mio la memoria
mia fallace: ciò che non accadde
non lasciò traccia che mente savia
abbia a conservare. Quanto
all’ospite mio che tanto curo,
già ben lo vedo perso nuovamente
in suoi febbrili vaneggiamenti,
quindi male non n’avrà a fare
quei pochi passi che da ferrea casa
l’hanno a discostare.


(Escono la Guardia ed Erik da una parte e Olaf dall’altra)



Scena VI
Il salone delle udienze del palazzo reale di Stoccolma

(Entrano Giovanni – incoronato –, Olaf, Carlo, Birger, Caterina e nobili del seguito)


GIOVANNI
Qual è l’uso del giusto oste, che non trae
di altrui vinifica opera suo orgoglio,
signori gentili, che sorte e cielo volle
in questo lieto giorno testimoni
di pace e gran successo, a voi
io rendo lode prima che a me stesso:
senza l’abilità vostra, i prodigi molti
di questo fausto giorno non sarebbero.


CATERINA
L’aureo cerchio che t’incorona
delle svedesi genti degno sovrano,
non altri potrebbe in capo tenere,
è dunque opera giusta e buona,
al nostro nuovo re, rendere lode.


OLAF
Opera nostra, buon signore, a nulla
varrebbe se minore fosse mai
la guida che serviamo, non sia, quindi,
eccessivamente umile l’animo tuo,
che i grandi cieli incoronato vollero.


GIOVANNI
Come gli antichi sovrani, nel momento
di prendere corona e ricevere di vittoria
l’agognato frutto, comando regale do
che al “Te Deum” sia data voce
in ogni chiesa di Stoccolma,
e sia dato ordine, a quei che conio batte,
che la regale effigie mia, in oro,
circondata sia del templare motto
“Non nobis domine”, che a noi
faccia memoria che, quella ch’è
terrena gloria, nulla vale al cospetto
dei celesti. E onori siano resi
a quelli che, sopra quei che
maggiori a loro sono, misero ingegno
a nobile impresa e fecero dono
santo a quello che li guida, e ha
da render loro quel che loro spetta.
A quello che di Goteborg venne
di Polonia venendo, quello che
fu suo sia nuovamente, e a quello
che, maniscalco, venne a far prodigio,
sia data, della bella sua Kalmar,
autorità e giusto appannaggio.


CARLO E BIRGER
Come il sire nostro, giustamente,
a dire s’ebbe, “Non nobis domine”.
E parole queste siano, in pietra
e inchiostro, fatte e siano motto nostro
e di quei che di noi discende.


(Entra un Servitore)


SERVITORE
Ai nobili signori, che il cielo
grandi fece di nascita e d’imprese,
di saggezza e di pazienza, non risulti
invisa mia fugace presenza. L’opera
che ci si affidò noi, servi loro,
svolgemmo. Opera nostra è fatta,
e gradita speriamo vi risulti.


BIRGER
L’umile che, onesto, fa sua parte,
plauso si guadagna onestamente.


CARLO
E quello che lui plaude ha animo
nobile, e benedizioni n’ha sentitamente.



Sipario

domenica 25 gennaio 2009

Una lancia pronta da esporre

Ho finito!
Ho finito di scrivere e di rivedere il testo de "La lancia di Sigfrido".
La stesura l'ho terminata venerdì prima di cena, ma la revisione ha richiesto un po' di tempo (specie se si considera che sabato non ci ho lavorato e stasera ci ho messo mano solo verso dieci...).

Domani devo trovare il tempo di mandare il testo completo ad un po' di gente che mi ha chiesto di leggerlo... spero di avere un po' di tempo in pausa pranzo in ufficio.
Vedremo...

Per ora, mi prendo un po' di tempo ancora per gironzolare in rete e poi vado a letto.

Ed intanto continuo a lavorare all'idea del mio secondo atto unico... ma questa e' un'altra storia...

domenica 18 gennaio 2009

Ora tarda per "La lancia", ma non si sa mai

Ok, sono un pazzo... ma questo chi mi conosce già lo sa.
La novità sta nel fatto che poche volte sono stato in vena creativa come in questo periodo.

La settimana scorsa, martedì, abbiamo cominciato a studiare "le Shakespeare" con Aldo ad improvvisazione ed un piccole surreale demone si è impossesato di me: alla fine della lezione, ci sono stati assegnati un paio di possibili compiti da svolgere per prendere la mano con lo stile, uno riguardante la costruzione di un dialogo ed uno riguardante la costruzione di una storia alla maniera di "Gugliemo"; per quanto riguarda il compito sul dialogo, a me è stato esplicitamente detto di non farlo, mentre quello sulla storia non mi è stato precluso, quindi ho deciso di fare quello.
Il problema è che, avuta l'idea per una storia che potesse essere strutturata come una "Shakespeare", mi sono fatto prendere la mano: ho progettato, e cominciato a realizzare, una commedia (un atto unico che ho intitolato, per ora, "La lancia di Sigfrido") sulla base della storia che ho scritto.
Certo, non mi sto curando troppo della metrica (l'endecasillabo sciolto non è il mio cavallo di battaglia, ma poco importa: in italiano le opere del Bardo perdono quella rigorosa poetica che l'autore ha dato loro in lingua originale e che sarebbe un'impresa disperata cercare di ricostruire fedelmente in un'altra lingua), ma non si può dire che non stia facendo un lavorone... La Barbareina ed il Doc erano stupiti già a metà della prima scena e la reazione di Fhede non è stata da meno.

Visto che sono un pazzo scriteriato, ho deciso di darmi da fare e completare il tutto per martedì sera: chissà che qualcuno non la trovi una cosa divertente da leggere.
L'ora non è propriamente delle più adatte, ma chissà, magari potrei scrivere una scena o due prima di andare a letto... o magari potrei decidere di cominciare a mettere nero su bianco qualcuno dei progetti narrativi che ho in cantiere da molto più tempo: ora che sono preso dal raptus delle dita sulla tastiera, sarebbe quasi un peccato non dare seguito allo slancio creativo...

lunedì 12 gennaio 2009

Letture teatrali

In queste settimane, da Natale in qua, in cui siamo stati fermi con il corso d'improvvisazione avevamo dei compiti da fare: Aldo, il nostro insegnante (che si è visto prolungato l'ingrato compito di doverci istruire per ancora alcune settimane con - a sentir lui - sua malefica soddisfazione... che però corrisponde anche a nostra divertita gioia... miracoli strani che accadono nel mondo!) ci ha lasciato con una serie di letture da fare per prepararci a quello che ci attende nelle prossime settimane.
Dal Sogno di una notte di mezza estate a MacBeth, da Pirandello ad Antigone abbiamo avuto di che spaziare per i generi del teatro classico.

Abbiamo avuto... beh, diciamo che tra le feste, il Cantiere e tutto il resto, il tempo è volato abbastanza rapidamente ed io mi sono ritrovato (non perchè fosse tanta la roba da leggere: per una mia ostinazione ed un puntiglio che mi hanno spinto a leggere le opere intere invece che limitarmi ai brani consigliati...) con ancora un po' di cose da vedere. Per fortuna, oggi mi è corso in aiuto il lavoro.

Capita a volte di avere delle giornate, al lavoro, come quella che mi è toccata in sorte oggi: giornate in cui la mia attività principale viene sostituita da una cosa semplice, poco impegnativa, ma lunga e noiosa. Oggi mi tocca imbustare delle lettere... mi tocca imbustare qualcosa come duecentocinquanta lettere!
Imbustare non è un lavoro difficile, anzi, ma il problema è che non ti consente di fare altro: non puoi programmare in SQL se hai entrambe le mani impegnate (anche se con il pilota automatico inserito) a mettere fogli dentro delle buste. Puoi, al più, leggere qualcosa a video, meglio se qualcosa che non richieda di cambiare pagina tanto spesso in modo che tu possa imbustare diverse lettere prima di dover pigiare un "Page Down" e riprendere.

Ecco che i file delle cose da leggere mi sono quindi venuti comodi, tanto che prima di fermarmi per andare a mangiare qualcosa, più o meno a metà della mostruosa pila di scartoffie, mi ritrovo ad aver letto - oltre a due capitoli di un libro sulla programmazione SQL, molto tecnico e devastantemente soporifero se non si associa alla possibilità di fare delle prove... - l'ultimo atto del MacBeth, quattro atti unici di Pirandello e mi appresto a leggere due versioni dell'Antigone (quella di Jean Anouilh suggeritaci da Aldo e quella di Sofocle, che mi sono procurato da me e che mi aveva suggerito anche Fhede).
Sinceramente, non so se riuscirò a finire le letture prima delle lettere (mamma mia che gioco di parole!!!), ma comunque sia, direi di essere riuscito a rendere doppiamente proficua una giornata lavorativa che rischiava di essere mortalmente noiosa...

venerdì 9 gennaio 2009

Una spesa, nessuna voglia e l'ultima estate

Devo andare a fare una spesa: devo andare a compare un cellulare nuovo.
Decisamente una spesa che non avevo nessuna voglia di dover fare.
Intendiamoci: se si tratta di spendere in tecnologia io sono il primo a farsi avanti. Per certe cose ho decisamente le mani bucate, ed elettronica ed informatica sono tra queste cose... Il mio problema è che ho un rapporto conflittuale con i telefoni cellulari.

Attualmente ho un Motorola, un ormai vecchio V300 che ha cominciato a dar di matto da un paio di mesi a questa parte resettandosi quando lo apro, mettendo il livello della batteria in altalena e cose del genere. Poveretto, posso anche capirlo: ormai va per i quattro anni.
E' il secondo cellulare che ho avuto, il primo era un 3310 della Nokia, anche lui sostituito perchè aveva cominciato a dare segni di cedimento dopo un tempo analogo...

A suo tempo, il primo telefono me lo comprarono i miei, ma non costò tanto... il secondo vollero sponsorizzarlo ancora loro: volevano fare le cose pari con mio fratello che aveva dovuto cambiarlo a sua volta.
Io, fin dal mio primo telefono, sostenni che non avevo nessuna fretta di comprarne uno e che il primo telefono che avessi comprato sarebbe stato un UMTS (all'epoca, in Italia, non erano ancora neppure state assegnate le concessioni per le frequenze in quella modalità di trasmissione... come dire "non ne comprerò mai uno!!!").
Ora che il piccoletto fa le bizze, mi tocca affrontare la dura verità: è giunto il momento in cui io compri il mio primo cellulare!

A dirla tutta, in casa ce l'avrei anche un altro telefonino, il problema è che è assolutamente fuori discussione che riesca ad usarlo: me l'ha regalato un mio amico per Natale due anni fa (un modello minimalista: schermo in bianco e nero e giusto in grado di telefonare a mandare sms; me lo regalò più per scherzo che per altro: sosteneva fermamente che il mio telefono non funzionasse bene quando mi chiamava), ma è talmente piccolo che per premere un tasto alla volta avrei bisogno di un pennino, quindi...

Risultato? Mi sto documentando da due giorni sui telefoni, i loro costi, le foro funzionalità ed altre amenità del genere. E più lo faccio, meno capisco chi spende cifre (a mio avviso) folli per un cellulare.
Il telefono, per alcuni, è una specie di status simbol... per me è una bizzara via di mezzo tra uno strumento ed un giocattolo: mi serve per fare delle cose, potrebbe servirmi per farne anche di più, che ora non faccio se non di rado e/o con altri mezzi, però...

Leggo specifiche tecniche e mi chiedo cosa significhino.
Nulla di incomprensibile, sia chiaro: mi chiedo che cosa significhi avere a disposizione quel genere di tecnologia e se, chi l'acquista, la usa davvero... e mi chiedo se io la userei davvero.
Ho fatto due conti: un modello che abbia più o meno quello che mi serve (trasmissione GPRS, vibrazione, vivavoce, uno schermo con un po' di colori ed un minimo di fotocamera, niente di chè...) andrebbe a costare sui 60/80 euro... uno con quello che mi piacerebbe (memoria espandibile, lettore mp3, fotocamera un minimo dignitosa, trasmissione wi-fi e bluetooth) va più verso una cifra doppia. Uno con un overkill di tecnologia (e che quindi sostituirebbe il mio vecchio palmare usato che già quasi non uso più) andrebbe a costare cinque/sei volte di più... Ma perchè?

Alla fine, fatti due conti e fissatomi un budget (l'unico modo per evitare che sperperi cifre folli in tecnologia), penso che opterò per la spesa di fascia "media".
Ciò nonostante, mi chiedo se dovrei assecondare o meno quella piccola molla che ha deciso di scattare affermando "Avevi detto che il primo telefono sarebbe stato UMTS, non ti rimangerai mica la parola?". Inutile dire che non ho alcuna necessità vera di un telefono che trasmetta in quel modo, ma la coerenza...

Boh, non so... alla fine ho deciso che tra oggi e domani farò qualche giro ed entro l'inizio della prossima settimana avrò in mano un telefono nuovo ed avrò pensionato il vecchietto...
Chissà come andrà a finire? Cose bizzarre...

Come ultima nota, una canzone degli ABBA che mi assilla (piacevolmente) da quando sono andato a vedere, con Fhede, Mamma Mia!... Ormai è passato qualche tempo ma è ferma inchiodata lì dov'è atterrata e me la tengo ben stretta: ne vale decisamente la pena...

"Our last summer"

I can still recall our last summer
I still see it all
Walks along the seine, laughing in the rain
Our last summer
Memories that remain

We made our way along the river
And we sat down in the grass
By the eiffel tower
I was so happy we had met
It was the age of no regret
Oh yes
Those crazy years, that was the time
Of the flower-power
But underneath we had a fear of flying
Of getting old, a fear of slowly dying
We took the chance
Like we were dancing our last dance

I can still recall our last summer
I still see it all
In the tourist jam, round the notre dame
Our last summer
Walking hand in hand

Paris restaurants
Our last summer
Morning croissants
Living for the day, worries far away
Our last summer
We could laugh and play

And now youre working in a bank
The family man, the football fan
And your name is Harry
How dull it seems
Are you the hero of my dreams?

I can still recall our last summer
I still see it all
Walks along the seine, laughing in the rain
Our last summer
Memories that remain
I can still recall our last summer
I still see it all
In the tourist jam, round the notre dame
Our last summer
Walking hand in hand
Paris restaurants
Our last summer
Morning croissants
Living for the day, worries far away

"Mamma Mia!" cast - Mamma Mia! OST (2008)

mercoledì 7 gennaio 2009

Cantiere d'Inverno 2009

L'anno scorso non ce l'avevo fatta, un po' a causa del fatto che con il lavoro che avevo non avevo ferie da poter prendere ed un po' perchè le mie finanze, nonostante il lavoro, non è che fossero nelle migliori delle condizioni, ma quest'anno ho potuto partecipare al "Cantiere d'Inverno": ho perso la prima edizione, ma almeno alla seconda non potevo mancare!

Per tre giorni, da sabato a lunedì, ho... mangiato, respirato, vissuto e sognato improvvisazione e teatro in genere. Ed ancora oggi cammino ad una spanna buona da terra!!!
E' stato bellissimo essere fuori dal mondo per essere in un ambiente tanto carico di energia, con tanta voglia di fare e di imparare, di migliorarsi e di apprendere.

Aver conosciuto gente, tanto vicini ma che non conoscevo oltre quelli più lontani, con cui condividere tanti momenti divertenti, tante risate, ma tanta voglia di fare e tanto impegno... E' quel genere di esperienze che ti fa decisamente bene: riempie di entusiasmo... e ti da un sacco di voglia di fare, di continuare, di avere un'ora in più di lezione, di fare uno stage in più, di cominciare ancora una mista, una comparata, perfino dei calci di rigore!

Non so cosa darei per altre dodici (ma anche ventiquattro... quarantotto... novantasei) ore di lezione con quel mago di Alberto Ceville (l'insegnante dello stage a cui ho preso parte) e gli altri miei compagni d'avventura (Flavio, Giovanni, Francesco, Marco, Sauro, "Chico", Daniele, Sandro, Cristina, Isabella, Giorgio e Catia). E credo che passerà del tempo prima che le parole del monologo di Cotrone - da "I giganti della montagna" di Pirandello -, quelle dei dialoghi di Stefano/Sandro - da "Dimmi la verità" di Ceville/Eve - e dell'Uomo - da "Aspettando qualcosa" di Sinisterra - mi abbandonino del tutto...
E' stato bellissimo riuscire a dare più spessore alle parole di un personaggio, e riuscire ad usare meglio qualche silenzio... riuscire a ridurre le parole!
Sentirsi poi dire, da un professionista, che gli piacerebbe fare un'improvvisazione in gramelot con me... oh mamma... ma allora c'è qualcosa in cui sono addirittura bravo!!!

Certo, un pochino mi è spiaciuto essere sfortunato e non finire sul palco in uno dei quattro (bellissimi) match di domenica sera, ma è andata benissimo anche così: ci saranno altri match in cui mettere a frutto quello che ho appreso in questi giorni, magari dopo che queste informazioni si siano sedimentate e dopo aver avuto modo di barattarle con quelle acquisite dalle altre Giraffe sparpagliate negli altri stage.

So che è un po' assurdo, ma ogni volta che rivedo il logo del Cantiere mi viene da pensare che non ho ringraziato abbastanza tutti quelli dello staff, tutti gli insegnanti, tutti gli altri allievi e tutti quelli con cui ci siamo divertiti a fare i matti sabato sera a cena, domenica notte dopo il match e lunedì sera alla cena/festa chiacchierando, ballando, cantando e passando dei bellissimi "terzi tempi".
C'è una cosa, però, che mi rassicura: non sono il solo ad essere sentimentale e troppo entusiasta: vedere la Barbareina artefice del gruppo di Facebook "Voglio tornare al Cantiere" o scoprire il gruppo dei fan della spuma di tonno creato dal Bonetti... beh, vuol dire che in fondo in fondo siamo fatti tutti così: un po' matti, tanto entusiasti e tanto, tanto desiderosi di divertirci, di non prenderci troppo sul serio - quando il momento lo consente - eppure tanto, tanto, ma proprio tanto desiderosi di condividere queste nostre passioni ed emozioni con gli altri...

E dunque, così sia: voglio anch'io tornare al cantiere e voglio fare una bella scopracciata di spuma di tonno... voglio tornare a lanciarmi a terra sulle assi - troppo desiderose di cedere schegge - del pavimento di quella palestra dove abbiamo fatto lezione e voglio tornare a rischiare di ricevere un fallo di clichè - da spettatore - da un arbitro bravissimo quanto inflessibile... voglio tornare a cantare a squarciagola e ballare come un matto... voglio tornare ad "aspettare qualcosa" e voglio ripetere a tutti che "la villa è abitata dagli spiriti"...
Voglio un altro cantiere, che sia d'inverno o anche no... e voglio che quei tre giorni rimangano per sempre lì perchè le meraviglie durano per sempre.

venerdì 2 gennaio 2009

Buoni propositi

Capita ogni tanto di trovare il tempo per fare una cosa che è da molto che è in sospeso. Capita, non è frequente, ma capita.
A me è capitato oggi in questa giornata surreale al lavoro in cui siamo in cinque in tutto l'ufficio. In questa giornata con ancora una cifra sola nel conteggio dei giorni dell'anno... In questa giornata in cui sembra che Modena sia chiusa per ferie peggio che a Ferragosto.

E' un paio di giorni che penso al nuovo anno... fino a lunedì era "L'anno che verrà" ed oggi è già "Il nuovo anno"... detesto quando mi perdo per strada i minuti, le ore o i giorni interi.
Comunque sia, è qualche giorno che penso al nuovo anno ed all'assurdo rito dei buoni proposito.
Assurdo non perchè sia una cosa sbagliata o che altro, solo perchè - per quanto ci provi - i buoni propositi spesso rimangono solo quello. Non diventano "positive opere concrete", no, rimangono idee vaghe che vengono inghittite dal tempo che e che si archiviano spontaneamente nel cassetto delle "Cosedafarequandoavrotempoossiaprobabilmentenellaprossimavita".
Eppure, per quanto i buoni propositi siano, a tutti gli effetti, un inutile - se non frustrante - esercizio mentale, ogni anno provo a farli.

L'elenco di quelli del 2009 potrebbe cominciare più o meno così:
- fare la barba un po' più spesso
- tagliare i capelli un po' più spesso
- dare una regolarità a questo mio diario
- riversare maggiore impegno nei progetti del mondo ALEA
- vedere la parola "Fine" comparire sopra le linee del "Fronte".
Ovviamente ce ne sono altri, molti altri, ma l'elenco - in rigoroso ordine sparso - da qualche parte deve cominciare...

I primi tre sono forse i più frequenti degli ultimi anni: mediamente, due o tre volte l'anno un improvviso fuoco mi si accende dentro e quei tre propositi diventano la mia prima urgenza.
Poi comincia a piovere e quel fuoco si spegne: il rasoio continua a sonnecchiare placido nel mobiletto a destra dello lavandino in bagno, il mio barbiere continua a vedermi con la frequenza con cui si avvista una Limousine in Piazza Grande e la regolarità autoanalitica continua ad essere un sogno irrealizzabile.
L'ALEA, però, in queste settimane mi pulsa con un desiderio di attenzione, con una volontà quasi propria... e spero sinceramente di poter soddisfare questa sua feroce richiesta.
Il "Fronte", invece... Questo, più che un proposito, è un auspicio... non dipende esclusivamente da me, quindi non è mio potere decidere se e come la storia si chiuderà.
Non è detto che finisca, ma quella deve essere la mia speranza: mi auguro che loro facciano il loro gioco (per ora la frase ha un'accezione molto monegasca... sul fatto che il "loro" gioco lo facciano davvero sono ansiosamente curioso: i termini per la presentazione dei progetti sono stati prorogati di quasi cinque mesi ed ancora non si sa nulla...) ed io possa continuare a comportarmi come mio solito, offrendo il mio sincero (autolesionistico) e volontario apporto nelle situazioni in cui sono coinvolto.
Se poi mi capiterà in sorte di essere definitivamente escluso dalla cerchia dei "volenterosi" perchè sono la bestia brutta e cattiva che mi si dice sia, farò quello che fanno i tanti ignari che usufriscono e non fanno... forse mi divertirò meno, sicuramente mi riposerò di più, ma almeno li farò contenti...

In conclusione, l'anno nuovo è arrivato ed i propositi hanno trovato la loro forma e si avviano per la loro strada. Forse la mia quotidiana esistenza mi consentirà di rendere cosa concreta le piccole e grandi aspirazioni che hanno visto la luce in questi giorni... se sarà così me ne compiacerò, se non sarà così non me ne turberò più del necessario.
Vedremo quel che ha da succedere e, forse, tra 365 giorni simili a questo vedremo che bilancio potrò fare.