Quella che segue è la storia del mirabile giorno in cui, nell'anno di grazia 1568, Giovanni Vasa assunse la corona di Svezia, come narrata da un indegno allievo del Bardo.
La lancia di Sigfrido
Una commedia in un atto
PERSONAGGI
GIOVANNI III VASA Duca di Finlandia e Re di Svezia
OLAF SVENSON Duca di Malmo, Feldmaresciallo Giovanni III
CATERINA JAGHELLONA Sposa di Giovanni, sorella di Sigismondo II di Polonia
CARLO STURE un giovane svedese di nobili natali
BIRGER BIRGERSSON un giovane maniscalco di Kalmar
ERIK XIV VASA deposto Re di Svezia, folle fratello di Giovanni III
UN SERVITORE
UNA GUARDIA
NOBILI DEL SEGUITO
(Entrano Giovanni, Olaf e nobili del seguito)
GIOVANNI Nobile Olaf, mio maresciallo, duchi, conti e cavalieri di Svezia, giunto infine è l’agognato giorno: il duraturo confronto che ci armò contro la carne e il sangue nostro, e che spinse la nostra terra a fremere, per sette lunghi e perigliosi anni, all’incedere costante di marziali passi, oggi vede sua attesa fine. Oggi, quando lo sfolgorante astro, che i cherubini muovono nel cielo, al culmine di sua corsa sarà giunto, la terra che fu del padre mio Gustavo, e poi dello scellerato fratello mio Erik, un nuovo re avrà da festeggiare.
OLAF Il cielo ti vuole ornato del biondo ferro, signore nostro che sol del freddo acciaio per troppo tempo ti vestisti. Un guerresco elmo cedi, in cambio di augusto anello, ed ai comandanti tuoi rendi ciò che follia e crudeltà, di malsano frutto del tuo stesso nobile ramo, tolse iniquamente e senza aiuto di ragione.
GIOVANNI Cugino mio, mio fratello nel ferro, non temere: così come un più altro re accompagnò, per tutta la campagna nostra, nostre truppe, e a lui sarà resa grazie in questo giorno, quelli, che lui fece nobili di spirito e lignaggio, ripagato avranno ogni credito che vantano. Solo m’angustia, in questo lieto giorno, l’udire che i danesi in arme avanzano ancora verso Malmo. La rocca tua è salda, mio maresciallo, come le chiglie delle navi dei padri nostri, ma come vascello alla tempesta esposto saprà trovar sicuro porto oggi che il nocchiero suo lontano dal timone siede?
OLAF Sire mio non temere: i danesi flutti a un forte scoglio vanno incontro, ché mai solo mio fu merito di armato nostro successo. Altra è invece fonte di mia preoccupazione: nobiltà d’animo e bontà, a te, reggono il regale manto che vesti, ma non è questo tempo di benevolo sguardo. Tu risparmi il sangue tuo: solo alla catena lo condanni. Contro accorti avvisi di virtù t’armi, ma così a Virtù cedi comando dell’arte tua che è il regno, che è arte a cui Saggezza e Malizia assai più si confanno.
GIOVANNI Due volte sole gli angeli hanno menato il sole intorno, eppure a cento assalti di consigli ha resistito già mia decisione. Ancora non vedete, miei conti e duchi tutti? S’io mi facessi quale Erik, menando a destra e manca l’odiosa lama del boia dal solo sospetto guidata, sua via prenderei, ché natura sua è mia nel midollo, come sua e mia fonte di sangue sono la stessa. Lasciate ch’egli viva: già troppi sono i diavoli d’inferno che in vita lo tormentano qual’egli fosse già morto. Al Signor nostro piacendo, breve sarà il di lui calvario, che Iddio breve fece, dopo tutto, calvario di Svezia.
OLAF (a parte) Tosto si fa l’orecchio del galantuomo che malizia non intende. Se il candido sire nostro del sangue d’egli segnar non vuole l’aureo cerchio che in capo porta, ad altri, a minori, tocca fare che l’alta terra nostra non veda ancora fratelli armati scendere in lizza.
GIOVANNI Ora che l’alto momento di questo dì s’appressa, lasciatemi duchi miei, fratelli: come antico cavaliere prima di prendere di San Giorgio l’arme, a terra nostra, a nostro sangue e al Signore nostro, il mio pensiero solitario si volga. Lasciate che, eremita nel petto mio, il mio cuor faccia di colpe mie e di meriti la somma, ché giusto è che al regale seggio sol s’accosti il rispettoso cuore.
OLAF L’arcistratego ti sia guardia, signore che di Svezia ti fai guardiano. (ai nobili) A preparare nostri giuramenti, fedeli devote promesse, tutti volgiamo l’animo chiaro, e a ciò che è nell’animo suo il nostro sire consegniamo.
GIOVANNI I santi vi siano scorta.
(Escono i nobili e Olaf si avvia)
OLAF (a parte, uscendo) Meglio i diavoli d’inferno, per badar a quel ch’io intendo. L’anima mia danno consegnando a prematura sorte col fiele il fratello suo, ben lo so, ma se a Svezia tutta altri lai risparmio, l’eterna fiamma mi parrà dolce camino.
(Esce Olaf)
(Entra un Servitore)
SERVITORE Signor mio, perdona chi t’angustia.
GIOVANNI A te perdono concedo, che messo soltanto sei.
SERVITORE Sia il perdono tuo sì grande da ospitare pure chi mi manda.
GIOVANNI Se il cielo fosse grande la metà di mio perdono, sulle spalle d’Atlante null’altro avrebbe posto.
SERVITORE E Svezia nostra ti benedice per questo e gli altri doni ch’Iddio fece all’animo tuo.
GIOVANNI Risparmi Svezia le sue benedizioni e questo messo risparmi la favella: limitarti potresti a rendere un nome e un volto a colui che qui ratto ti mena?
SERVITORE Ben lo potrei, se il sire mio lo comanda.
GIOVANNI Se comando deve essere lo sia, ma dimmi chi mi cerca o, per l’anima mia, io stesso costretto sarò a varcar la soglia per dare a questo enigma soluzione.
SERVITORE Nessuno va cercando il prossimo nostro signore, ma s’egli intende sapere chi richiede di poterlo incontrare, è alla Duchessa, prossima regina, che la mente sua deve volgere il magnanimo e buon pensiero.
GIOVANNI La signora tua, messo magniloquente, fai pure avanzare e concedi, agli orecchi nostri stanchi, licenza di tuo aulico verbo.
(Esce un Servitore)
GIOVANNI (divertito) Doni, da concedere alle genti di nostra algida Svezia, il cielo ne aveva d’avanzo, s’ebbe modo di fornire un solo servo, tanto pronto, dell’eloquio dei poeti e dell’arguzia dei filosofi.
(Entra Caterina)
CATERINA Luce dell’animo mio, ti vedo lieto. Cosa dona al cuore tuo levità tale da accogliere l’amore col medesimo sorriso che, lungi da regali affanni, concedevi agli occhi miei giovinetti nei bei giorni dei primi incontri nostri?
GIOVANNI La bella gente di nostra terra mi dona liete risa e cuor leggero, che pure si fan cosa ch’è nonnulla quando sul candido sembiante tuo, del quieto splendor di mille stelle ladro, ch’amore in terra è di carne e sangue, l’occhio mio si posa lesto e gioventù ridona al cuore.
CATERINA Che direbbe la gente di tua patria se sapesse ch’ha re ch’è anche poeta? Non v’è dunque qualità che in tuo petto non abbia a trovare salvo suo asilo? Grande è il re, dissero i profeti, che, tanto con favella che con ferro, sa essere degno pari del maestro che l’ebbe a forgiare a quel fardello che gran regalità si porta appresso. In te, guerresca arte e lieve parola s’abbracciano a virtù e arguta mente, che, quando acconci il cuore a far giberna a diplomatici consigli, ti fai signore di genti e terre senza ch’occorra di metter mano al brando.
GIOVANNI La polacca musa d’arte mia l’ho qui accanto e, senza di lei, non avrei cuore a far di questa terra nulla che è degno d’un signore. Ma dimmi, luce mia, quale questione ti spinge a cercare il tuo compagno? Cosa, in questo giorno, ti porta a cercarmi nel momento di mia riflessione?
CATERINA Ti giunse, mentre eri coi tuoi conti in gran consiglio, notizia che Sigismondo, l’alto figlio del padre mio di Polonia gran signore, inviò squisiti doni e lesta legazione a rendere i prescritti omaggi ad un nuovo unto sovrano?
GIOVANNI Non l’intesi questo fatto, e assai me ne dispiaccio. Chi li guida? Ivàn? Augusto? Forse Sigfried, gran generale? Chi di lor ripose l’armi sue, e pose al suo cavallo ricchi finimenti, a onorare degnamente l’imminente grande occasione? O forse tutti e tre, quali orientali magi, si presentano a recar gradite regalie e a condivider gli agi di una calda corte in vece di freddo campo?
CATERINA Augusto, il cugino mio, quale baldo Baldassare s’accompagna a suoi pari e omaggia il mio signore.
GIOVANNI Ai tre miei grandi amici, ti prego, presenta mie scuse: presto li avrò a me dappresso e lieti parleremo, a ridestar, quali fantasmi di passati giorni, l’ardimentose gesta che, prima di gran festa e trattenimenti lieti nostri, ci videro compagni e consorti in bricconate che mai ebbi a narrarti di gioventù nostre andate.
CATERINA A quel che di mio signore è intendimento adempierò prontamente, ma avanti ch’io possa a loro recar messaggi, permetti ch’io a te riferisca quanto qui ero giunta a riportare. Il buon Sigismondo, per mezzo mio, ti manda a dire che appresso al marziale trio viene un giovane onesto, di buon valore, pronto di braccio e meninge, che raramente vide pari il terra di Polonia; egli non è di quella landa però figlio: dal nobile seme di Svezia viene sua alta pianta. Sture è sua famiglia, che in Goteborg non più comanda, e porta in sé seme di grandezza, come adorna d’augusto suo nome di imperatori molti. Carlo Sture, è questo il giovane fiero che a tuo cospetto viene, e a te, quale scudiero, si presta in questo giorno. Di nobile padre, caduto per mano folle, egli è certo e giusto erede, ma per sé egli non vuole ciò che, pure, avrebbe diritto di volere: al nuovo nostro sire implora l’occasione di poter prestare sfoggio di forte sua schiatta, guadagnando di sua arte ciò che l’augusto suo natale comunque non gli valse.
GIOVANNI Achille ed Ercole, in sol corpo giunti, non parrebbero avere maggior valore di questo solo giovane. E sia: gli si faccia riferire che udienza a lui sarà concessa, innanzi a che la Svezia un nuovo re conosca, e che quindi d’appresso a questa corte fido si tenga.
CATERINA Ai tanti tuoi propositi a dar seguito si presti l’intera terra e il cielo, ché in te maestà è ben desta.
GIOVANNI Ora, colomba mia, a tribolati pensieri il mio animo lascia. Prossimo il nostro nuovo incontro già si fa, come il chiaro sole che al culmine del cielo s’appressa.
CATERINA Al volere di gran maestà il mio fare si conforma.
(Esce Caterina)
(Entra un Servitore)
SERVITORE Signor mio, perdona il messaggero che in riflessione tua si frappone.
GIOVANNI (a parte) Toh guarda, l’aulico poeta che di servil livrea si fe’ mantello. (al Servitore) Al messaggero sempre sarà concessa magnanima la grazia, ma perdona forse il servo il suo signore che si chiede se è forse scritto nel cielo che il ponderare suo ha da essere tormentato?
SERVITORE Al nostro gran signore io ho a rassicurare che non è mia la volontà che a lui mi manda.
GIOVANNI E di chi è, in codesta fausta occasione?
SERVITORE L’appellativo del forestiero che al signor mio s’appressa, non mi fu concesso di sapere.
GIOVANNI Non lo chiedesti?
SERVITORE In fede, signore nobile e giusto, lo chiesi, ma la risposta ch’ebbi mi parve invero strana. A domanda, diretta e chiara, non venne simile risposta e, quando rinnovai limpida richiesta, detto mi fu “Il nome mio valore non ne porta. Alle tue orecchie, vuoto suonerebbe e il forte portone a cui fai scorta quella parola non animerebbe, che tanti, quali me, ne ha visti il cielo, e l’alto ospite tuo non ha da trarre degno giovamento da sapienza che meno d’un zecchino ha di valore. Va e riferisci solamente che un messaggio porto per quello che, oggi sorto re, un tempo era Johannisk. il giovane dalla cuffia nera.”
GIOVANNI (a parte, preoccupato) Johannisk? Chi può... (al Servitore, pressante) Solo questo ti disse?
SERVITORE Com’è vero che nella Svezia tutta nessuno c’è che a te è pari, signore che col segno, di predecessori tuoi molti, fai giusto orpello alla forte sede di quel ch’è tuo pensiero.
GIOVANNI L’aspetto di quel viaggiatore qual è? Com’è il suo sembiante? Gli inverni di terra nostra versarono sul capo suo tanta neve da dare, alla sua chioma, colore che par quello di virginale veste?
SERVITORE L’augusta maestà che ci governa ha forse dei profeti il dono? Il viaggiatore che a lui si presenta, in cima al collo suo, porta la neve.
GIOVANNI E sia! La soglia, da lignea guardia vigilata, per questo viaggiatore si dischiuda: avanzi e siano diavoli o santi i suoi passi ad accompagnare.
SERVITORE Il cielo e la terra di terra nostra al comando tuo prestano servile orecchio, e chi sono io per far da meno?
(Esce un Servitore)
GIOVANNI Come, per il cielo, si presenta questo misterioso caso? Solo uno su suolo di Svezia ebbe ad usare tale nome... Ma l’anima sua sta coi santi da anni molteplici ormai: già nella lotta per l’aureo cerchio ero impegnato, quando il buon frate precettore gli angeli accolsero nell’alto.
(Entra Birger)
BIRGER (verso fuori) Guardia d’alta porta tanto loquace, perdona tu il viaggiatore che fai passare: il gelo di nostra terra, ch’era meco e che manto e cappuccio mio agghindava, ti lascio là, sul chiaro marmo, quale limpida fonte da prosciugare.
GIOVANNI (a parte) Eccolo che viene... eppure imbiancato non pare essere il di lui capo. Pare essere di quelli che ancora facilmente conta sue, non molte, primavere e non ha da lottar, con affollata memoria, quando rimembra i fatti dei trascorsi suoi anni.
BIRGER Nobile signore, augusta maestà, magnanimo tu sia con chi ti porta notizie che, altri, vollero a te destinate solo in questo giorno da lungi rimirato. Io vengo a far da voce a coloro che più non hanno voce sotto il sole: di genti che più non sono ti riferisco le benevole parole; di genti che nel cuore tuo e mio han posto: d’un padre e d’una madre sapienza ti riporto.
GIOVANNI Innanzi che a tali menti tua voce presti, rammenta la maniera che si conviene, e, prima di parlare con parole d’altri, una parola tua a me presta. Dimmi, viaggiatore giovane che canuto giunse, con quale nome fosti a santa fonte presentato, in giorni prossimi ai natali tuoi?
BIRGER Birger mi fu dato come nome in sorte, quale era quello del mio buon padre. Birger Birgersson, ferratore di destriero nobile come di stolido equestre lavoratore, tra le forti mura di Kalmar in dì usuale potreste trovare, ma oggi alto incarico mi porta assai lungi dai cari e familiari spalti.
GIOVANNI Non breve è la strada che percorso hai. Sia dunque libera la briglia che frena voce e pensieri tuoi: un messaggio rechi, ed ora che mi è dato di conoscere il messaggero, provvedi a riferire ciò che devi. Dicesti che da un padre e da una madre giunge la parola tua... m’accade dunque di conoscere fonte di tuo onesto lignaggio?
BIRGER Non t’inganni la maldestra favella di colui che colto non è e che ti parla: la madre di cui parlo è sì genitrice mia, mezzo per cui l’anima mia vide luce del mondo, ma il padre è forse più tuo che mio, valoroso mio signore. Di religioso padre io vado parlando, di quello che fu padre eppure era fratello.
GIOVANNI (tra sé) Un gran faticatore certo è costui, ma due volte più adatta gli sarebbe l’arte del cesello, se con artefici mani sue destrezza avesse pari a quella che è di sua loquace lingua.
BIRGER Ante ch’io venga a riferir messaggio, lascia che illustri al mio nobile sovrano come esso giunge a nascondermisi in petto. Nei trascorsi anni di mia giovane vita, nella città dove grande Unione ebbe patria, un buon uomo di Dio aveva preso a servire quale confessore di mercanti, gran signori e brava gente. Pure, di prestare parola ad insegnamento ancora sazio egli non era: a lui ho da render grato merito d’arte mia di leggere, scrivere e far di conto. Svante il suo nome, ben lo intuisco, nuovo non ti giunge: prima d’essere dell’animo di buona gente consigliere, precettore era stato di frutti, di ben più alto ramo, quale solo due ce n’è in tutta patria nostra: uno grande e maggiore, ma da tarlo abitato, ed uno minore eppure assai più grande, che di meritato biondo metallo pesto si farà cappello.
GIOVANNI Gli anni, trascorsi da miei giovanili studi, mi diedero a perdere del buon frate nozione fino a che di sua fine ebbi voce. Lieto mi rende apprendere che, in Kalmar, sua erudita e divina missione, negli anni lietamente svolse.
BIRGER E lieto l’era il divino padre, per buona sorte che gli era incorsa: del buon conte nostro religioso consigliere, per le sue marmoree sale, e nella forte aula d’aurea scorta, aveva libero passo. Le sacre sue reliquie ch’egli celava, il buon fratello aveva modo di mirare, e d’esse ci donava grande conto, ogni qualvolta il tal santo, di suo modesto pulpito, ricordava. Tra quei grandi cimeli d’anime sante e grandi armati condottieri, il frate e lo studioso, che di quel buonuomo condividevano il devoto cuore, ebbero un gran valore a reperire: un chiaro ferro, di lancia estrema cima lucida e tagliente quale fresca di cote. Il conte nostro quel tesoro teneva come l’arma del normanno eroe che di draghi si fece vincitore.
GIOVANNI Mi par d’averla, in gioventù, mirata quella quale di Sigfrido la lancia.
BIRGER Tale fieramente la presentava il signore di nostre ardite mura, e alla fine della fabbrica di nostro, antico e nuovo a un tempo, castello voleva che in bella sala essa stesse, a rendere gran lustro a sua figura. Il giusto precettore, invero, a lungo quel acciaio tenne a studio: com’ebbe poi a dir che a te si riferisse, in giorno di vittoria tua sul tuo stesso sangue, al normanno di draghi uccisore egli non credeva appartenesse. In cuore suo serbato aveva preziosa e nascosta opinione: non di pagano esso era, ma d’uno che a Dio affidava sua tenzone, a giudicar di segni e d’iscrizioni che sul ferro e sul legno lesse. A tempo che gli angeli a lui si presentarono per portarlo in alto seggio, matura era sua convinzione che del cristiano Olof il ferro fosse.
GIOVANNI Del nobile padre di regale stirpe? Del primo condottiero di svedesi armate che marciassero sotto cristiano stendardo?
BIRGER Ben l’intende il mio erudito duca, che del saggio frate ebbe a studio la patria e nobile storica lezione. In giorni di battaglie per il regale seggio, il mistico nostro padre Svante ben vide certa tua vittoria, mio signore, e diede alla genitrice mia funzione di farti avere questa preziosa nuova, in giorno di tua liberazione di terra nostra da consanguineo tuo folle tiranno, a ché il forte ferro di devoto sovrano, un nuovo devoto sovrano consacrasse. Quando alla madre mia, due anni orsono, il fato spense lume, a me passò il grande compito e, come vedi, pronto ora l’assolvo.
GIOVANNI Grande notizia tu porti invero, quale dono a un re, che non ha pari, che tesori e gioie di mille altri signori nulla valgono a ciò che è di nostra Svezia. A questo tuo messaggio, ed a volontà del buon precettore, occorre dare seguito tosto. (chiamando) Buon servitore, di alata lingua munito, poni leste ali ai tuoi calcagni e ratto menati al cospetto del signore tuo.
(Entra il Servitore)
SERVITORE All’appello di colui che svedesi genti mosse, il passo del suo servo lesto si scosse.
GIOVANNI E’ in sala prossima in attesa un giovane che viene di Polonia eppure che di Svezia è figlio?
SERVITORE Invero così è, mio buon signore, immobile in attesa come pietra, attento ad ogni passo ed ogni voce ché la chiamata sua non sia sorpresa.
GIOVANNI E dunque che suo attendere sia rotto e al cospetto mio egli giunga! Suo valore mi concesse di testare e ad alta questione gli farò misura.
(Esce un Servitore)
GIOVANNI A te, mio prezioso messaggero, ho da concedere grata licenza, ma se volessi rinviare tua partenza, potrei agio darti a dimostrare valore quale è noto essere, di quei di Kalmar, gran patrimonio.
BIRGER Alto onore maggiore non potrebbe essere, per umile mio pari, servire quelli che tutti ci fe’ grati, del periglioso peso liberando l’alto trono di quei che Svezia guida.
GIOVANNI Animo nobile pochi pari il tuo avrebbe, tra i conti e bei signori di terre che non siano di almeno dieci volte della nostra assai maggiori, se solo almeno una ve ne fosse.
(Entra Carlo)
CARLO (a Giovanni) Al grande sovrano d’alta terra piace di concedere, al forestiero, udienza che, nel cuore suo, speranza accende. Cosa mi comanda il grande e giusto mio signore?
GIOVANNI A te che di nostra terra figlio d’altra patria fosti allevato, a te che di dote tua giusta non fai richiesta, il tuo signore occasione a te gradita offre: s’è vero quel che di te mi si disse, ed al servizio mio ti porgi, incarico alto, ed a me caro, ti propongo per dimostrare di te, e tuoi natali, il gran valore.
CARLO Se anche pari fosse, questo compito, ai tanti ch’ebbe in sorte l’Alcide eroe, paura non avrei e, forte e lesto, al volere del mio signore anima ed essere presterei.
GIOVANNI Degno è il proponimento tuo, e lieto fai il tuo comandante ponendo spada e fede a sua disposizione. Ad una cerca vado destinando abilità tua e tua decisione: d’eroe, o condottiero, il fiero brando ti do compito di recuperare. Il letale ferro che, pari forse solo a quel del cavaliere santo, di draghi e pagani fece scempio, a te richiedo di trovare. In gran città, qual è Kalmar, recluso in forte sala esso si siede, ma alto volere pare essere che a più fiero fianco faccia scorta.
CARLO Al mio signore vada ogni gloria d’impresa che in nome suo è svolta. Un solo dubbio sull’animo mio pesa: per il tristo mio caso, che al sire nostro è noto bene, la patria mia malamente conosco, quindi malfermi passi volgerei alla volta di città di cui mi è data incerta è limitata cognizione.
GIOVANNI Da questa tua incolpevole mancanza non farti dare cruccio più che devi: grande ricompensa sia la tua se l’incarico porterai a buon compimento, ma non minore sarà per quelli che aiuto ti presta. (a Birger) L’intendimento mio ora t’è noto, onesto messaggero di santa voce? Al signore tuo rifiuto sarà opposto o soccorso sarà il suo campione?
BIRGER Tutta limitata scienza mia a questo cavaliere io presto, se al grande nostro sire posso fare in questo modo umile dono.
GIOVANNI Mi compiaccio di vostra unione d’abilità e di intendimenti. Ora che compito vostro è dato, al fatale momento io mi presto: andate salutando un duca, che a tempo di ritorno vostro un reggente re saluterete. Ancora non m’è dato d’aver composto l’animo mio al gran rito che m’attende, quindi ad alta riflessione ora mi volgo, ma altre aule frequentando acchè, forbito servo o altro innesco, pazienza mia non faccian deflagrare.
CARLO I santi siano consiglieri di tuo cuore e mostrino a tuo occhio tua missione.
BIRGER Il divino padre tua fede faccia salda e di santi propositi l’animo t’armi.
BIRGER E CARLO Grande tua maestà faccia lume agli oscuri giorni di nostra Svezia.
GIOVANNI Siano gli angeli, e i santi, su passi e impresa vostra a vigilare. Benedizioni molte, e speranze altrettante, su voi possano posare.
(Esce Giovanni)
CARLO Ed ora che il buon sire lasciati ci ha fiducioso, all’opera nostra si volga intelletto e decisione.
(Escono Carlo e Birger)
(Entrano Olaf ed una Guardia)
GUARDIA Signor mio, nobile duca, l’intendimento tuo chiaro appare anche ad un umile quale io sono. Eppure, giacché d’umile pasta, e modesto ingegno, m’incorre d’essere malamente fornito, l’animo mio barcolla avendo a fare quanto questo gran signore mi comanda. Non per mancanza di grandezza di colui che mi da alta missione, ma per maggiore grandezza che è d’altro signore di cui opposto fu il comando.
OLAF Nondimeno, tu lo dici, gran valore poni in codesta piccola fatica. Dunque perché spirito tuo, che per naturale istinto del pericolo avverte quando grande sia minaccia che il prigioniero tuo porta seco, teme altro che non sia periglio per quella grande terra ch’è la nostra? Dal nobile tuo sire temi, forse, che possa a te venire qualche male? Di quel signore tanto dolce che, financo a chi lo spinse a dura lotta risparmia sofferenza e mal maggiore, paventi furiosa ira? Di lui che furioso mai non fu, neppure avanzando in aperto campo armato?
GUARDIA Il maresciallo d’arme nostro bene vede che differenti rami sono quello mio e quel del prigioniero. Prossimo al nostro sire egli è tanto quanto io ne son lontano, e ciò che fraterna mano frena a me non è dato d’invocare.
OLAF Garante mi faccio io, se a te basta, che danno alcuno t’incorrerà per questa preziosa impresa. E come posso, io, far tale promessa altri ce n’è, che contarli non si può, che valoroso saluterebbero colui che da pericoli e timori liberi il sire che oggi prende corona. (sentendo passi dall’interno) Inopportuno qualcuno s’appressa.
CARLO (da fuori) Ero forse io in fallo, o eri tu a riporre in vano, nel sentimento tuo, speranza troppo grandi?
BIRGER (da fuori) E sia, se questo anela anima tua, lo ammetto mio buon Carlo, ma rammenta tu chi notizia di triste sorte incorsa al conte mio prontamente ti diede.
OLAF (a parte alla guardia) Andiamo, pria ch’uno giunga, a condir, del prigioniero tuo, il pasto con condimento gradito a certi, che non abbia a dare sapore, ma abbia a togliere agli occhi il lume.
(Escono Olaf e una Guardia)
CARLO (da fuori) Ben lo rammento, e diversamente portarmi non potrei: canuti ora saremmo se per ogni puntal replica tua il sole a oriente una volta fosse sorto, eppure meno di un’ora sola trascorse da quando il giusto sire nostro ci fece congedo.
(Entrano Carlo e Birger)
BIRGER Abbiamo dunque, noi compagni in questa nostra regale cerca, ad essere nemici e rinfacciare errore l’uno a l’altro, quali fiere che una all’altro collo invelenite s’avventano?
CARLO Pace, compagno mio, pace! Intendimenti nostri son comuni e quel che l’uno a l’altro fa nemici è solo infausta sorte. Aver da apprendere che in Kalmar più non siede un conte, da quando del folle il boia diede al giusto Anund sua sbarbatura, ha disposto all’astio il mio cuore. Poco mi giovò apprendere che a questo stesso forte era diretto, della bella città, il gran valore.
BIRGER Pari al tuo è mio risentimento: punto ci vale sapere che nostra cerca ha meta sua là d’onde ne viene, dato che insania pose a morte financo suo camerlengo e tesoriere. Il cercare nostro, da me vanamente prolungato, nel bianco forziere di marmo e patrio legno, nulla ci valse se non ulteriore bile e scoramento.
CARLO Eppure ora, quali calmi cacciatori, abbiamo a seguire l’ardua pista che pure sapevamo ove trovarsi. Non c’è prova che cosa retta e saggia sia quando saggezza a follia s’appella, ma fonte altra di notizia non abbiamo e, quali viaggiatori che disperati hanno da bere solo da avvelenato pozzo, a malsana sorgente scienza nostra, al limitar di fine sua, va a fare scorta.
(Entra Olaf e resta nascosto in ascolto)
BIRGER L’avessi saputo innanzi che impresa nostra inizio avesse, ai sensi miei non avrei creduto, eppure, in questo solo correre del solare astro nell’alto cielo, due svedesi sovrani avrò incontro.
CARLO Bizzarri casi sono quelli del fato che pone nell’inferma mente del maggiore, tante volte maledetto quanti sono di patria nostra forti e porti, notizia che al minore, di tante benedizioni indirizzo che il Paradiso stesso avrebbe a muove alla volta della terra per darvi seguito, diano in dote la santa reliquia ch’egli giustamente merita e cerca.
OLAF (a parte, non sentito dai due) Quale prodigio mai è questo, che manda due giovani a cercare, dalle fredde labbra d’un defunto, notizia per quello che si va a incoronare santificato sovrano?
BIRGER Già che lo nomi, su quel santo brando m’incorre una domanda: l’onesto Frate Svante, che bene lo studiò, ebbe lungamente a tormentare il saggio saper suo e, spesso, in sua domenicale funzione ebbe modo di parlare di quel guerresco e santo ferro. Io, giovanetto, a udire le vicende del normanno eroe e di Olof, gran sovrano, attento mi facevo come segugio che la preda fiutata ed inseguita punti.
CARLO Ben lo comprendo: io parimenti, in gioventù mia, similmente mi portavo quando il precettore, ch’un filosofo era di norvegese schiatta, della paterna casa mia in Goteborg, della fiera antica e santa lancia narrava nascita sua e santissimi natali. Or che di questo caso si va narrando, m’incorre di ricordare antico conto: se ai remoti cronisti si da credito, quella c’era di Olof, prima fu del cavalleresco Giorgio, grande e santo, che dal romano l’ebbe ad aver per tortuose vie...
BIRGER Ben l’intendesti, la storia, dal precettore tuo, come io l’intesi da quello che fu mio e non solo.
CARLO Tu dunque ti domandi quello ch’io stesso mi domando? Ha del Longino ad essere il sacro ferro che, per nostro re, andiamo vanamente ricercando? E il sovrano nostro, ch’è a noi, per saggezza e sapienza, ben maggiore, ha, per questo, noi posto a cerca che cento volte più santa è or che vero nostro cercare chiaro e santissimo c’appare?
OLAF (a parte, non sentito dai due) Bene intende l’orecchio mio? Dal sovrano, cui io feci dono del torbido e forte fiele, vanno costoro cercando sapere che, a reliquia tanto santa, portarli lesti potrebbe per dare pronto seguito al volere di quel che grande fa già Svezia?
BIRGER Quale gallese equipaggiato del forte loro legno, il centro di mio pensiero e cruccio ben l’incogliesti e trapassasti.
CARLO E dunque cosa ci frena, ora che ci è dato nuovo sprone?
BIRGER E CARLO (chiamando) Guardia! Guardia!
(Entra la Guardia, cui subito si affianca Olaf rivelandosi come fosse arrivato assieme alla Guardia che se ne stupisce)
OLAF (alla Guardia) Avevo dunque inteso bene, buon soldato: delle voci venivano da questo tuo posto di scolta.
GUADIA (ad Olaf capendo ed assecondandolo) Il buon signore mio pare fresca recluta dal chiaro orecchio. (a Carlo e Birger) Chi sono i signori miei Che, a questo tristo luogo affari loro portano, in giorno che in Svezia è di grande e lieta festa?
CARLO Due onesti figli di onesta terra, noi siamo, sudditi devoti che al comandamento di buon sovrano rispondono lesti, come i dardi che rispondono al comando di forte e implacabile balestra. Assolvendo a richiesta che viene di volontà che assai maggiore è di quella che è la nostra, all’infausto cospetto del despota deposto ci troviamo a doverci recare.
OLAF Allora, buona guardia, lascia costoro prontamente passare: a loro cedi il passo come fosse, per mezzo loro, che al sire tuo umilmente lo cedessi. Che abbiano libera via coloro che il grande nostro signore onestamente servono.
CARLO (a Olaf) Se bene m’è dato di intendere, gentile e nobile signore, il maresciallo di campo di nostro sovrano qui trovo, e uno migliore, per prontezza e cortese animo, egli non potrebbe avere.
OLAF Ed io, dal quel che si dice, sono al cospetto di quelli che, della nobile stirpe di Goteborg degli Sture, va facendosi nuovo e proprio nome. M’onora aver modo d’incontrare il giovane di cui tanto si parla, ma non sia io Nausicaa a trattenere l’errabondo Ulisse in sua cerca arditamente intento. Se del folle prigioniero di questa guardia t’occorre di condividere malsana sua scienza, affretta i tuoi passi, ed anzi permetti ch’io anche t’accompagni ed abbia ad aiutare tuo valore in nobile gesta.
GUARDIA (a parte ad Olaf) Signor mio nobile e giusto, quel pasto che, col sangue letale di doloroso fiore e frutto, mi diceste di condire, va ad essere tosto assunto da quei che ammorbò terra nostra. Intende, la sua cara signoria, assistere allo spettacolo triste che è la fine liberatoria di malata mente, che dal fiele ha da provenire?
OLAF (a parte alla Guardia) I vasti e magnanimi cieli hanno deciso che il buon Giovanni nel giusto si trovasse con sua solenne e magnanima decisione. Non per assistere ad una fine affretteremo i nostri lesti passi, ma per quella morte impedire che il Diavolo stesso mosse mano a quelli che di diavoli si fece mezzo, ma i santi danno un nuovo sprone a far cosa santa da cosa guasta, e dunque quella che fu mia decisione si conformi a quella che viene d’alta sfera e sovrana autorità.
(Escono Olaf e la Guardia)
BIRGER (a parte a Carlo) Invero è dato a dire che natali alti quanto i tuoi sono salvacondotti per molteplici porte e guardie quali i miei, ben più umili e modesti, non sono né mai saranno.
CARLO (a parte a Birger) Se il nobile uomo là oltre scortese ti pare per modo suo ch’ebbe d’ignorare uno e, solo all’altro, ebbe di dare cognizione, sappi che ben comprendo tua condizione: in primi anni di presenza sul polacco forestiero suolo, financo quando il lignaggio mio all’interlocutore era ben noto, m’incorreva d’essere considerato al pari del fumo e delle ombre, quali fossi pur non essendo ed essendo non fossi. Ignora quindi chi malamente si porta, e continua a ponderare ciò che è alta missione nostra. Andiamo, quindi, e seguitiamo, apprestandoci a parlare con chi del senno perse lume e di re perse corona.
(Escono Birger e Carlo)
(Entrano Olaf e una Guardia portando Erik)
GUARDIA (a Olaf) Mio signore, perdona mio lento passo: non fosse per te stato, la malevole sorte a questo sciagurato avrebbe di colpe sue tutte presentato somma e vita sua avrebbe preso a pagamento.
OLAF (alla Guardia) Segrete sono le vie che percorre, come chi misfatto seco porta, l’alta volontà dei bianchi cieli, e quando essa chiara si manifesta a quelli che, in santi e angeli, speme ripone non resta ch’affidarvisi sapendo che coloro che là siedono visione hanno di nostre cose maggiore che si ha noi di noi stessi.
ERIK (canticchiando) Quale mirabile prodigio fa natura a quei che guarda tutto il mondo privo di viltà, con luce pura, e meraviglia cerca in ciò che è tondo. (canticchiando a Olaf) L’animo vile non se n’avvede che rotondità fe’ cosa bella, e stanco e cieco mollemente siede e ad ignoranza paga sua gabella. (canticchiando alla Guadia) Vossignoria ha sguardo fiero, che segno chiaro è di gran discernimento, e ben l’intende che mio sapere è vero e ben vedrebbe se foss’io che mento.
(Entrano Carlo e Birger e questi trattiene l’altro a parlare in disparte)
BIRGER (a parte a Carlo) Buon Carlo, il nobile spirito tuo che, quale imperatore di grande regno che siede a rimirare il mondo di sua loggia, per i fieri tuoi occhi apprende ciò che accade a lui d’appresso, non abbia a cedere passo e senno a collera per quello che, miserabile, senno ebbe a perdere per primo. Ben rifulgono, come la lucifera stella fa avanti al giorno, bontà e carità in animo tuo, che tiene oneste virtù al pari di medaglie al petto appunte.
CARLO (a parte a Birger) Tu, compagno mio in questa impresa, temi forse che io abbia a farmi servo pronto di nera viaggiatrice, che una volta sola visita l’uomo in sua esistenza? Temi che abbia in animo di fare per me giustizia di quello che, in nome di giustizia, della fiera pianta di cui discendo fece scempio? Ebbene, quel che i saggi dice è spesso vero: quelli di cui i maggiori non si curano, per lo sdegno di chi ha da essere grande, visione hanno più grande, e comprensione hanno più vasta, di quello che, per gli occhi del mondo, essi ignorano. Ben vedi la fibra mia fremere al di lui cospetto. Ben l’intendi, tu, la mano mia che al fiero brando va incontro, ma non crucciarti: muovesi, ella, di volontà propria che, però, minore è di quella mia vera, e mai capace potrà essere di sovvertire mia onesta e chiara natura che m’impone magnanima propensione verso quelli che, disgrazia e cielo, fece meno alti.
OLAF (a Carlo) Ecco colui che Svezia nostra volse a disgraziata terra mano mano che, in suo animo, i giorni di follia prendevano ad aver numero assai maggiore di quelli che di senno aveano il chiaro lume. Erik Decimo Quarto, che la regale pianta di padre suo Gustavo primo adornò, con fecondo frutto, e che pure ebbe a dimostrare che anche il frutto gagliardo e bello l’odioso tarlo può sempre ospitare.
ERIK (rivolto ad un punto vicino al suo volto) Bella luce che danzi intorno rivela natura tua primeva: fatuo fuoco fosti? O favilla di stella caduta dall’eteree volte di chiaro cielo? (alla Guardia) Eppure, v’è chi dice che, quando una stellare figlia dal cielo prende e si distacca, dietro al calcagno suo subito si lancia una minuta megera di quelle che i sortilegi tesse del popolo piccolo di grandi leggende. (rivolto ad un punto vicino al suo volto) Se malia hai in tua mercede, minimale praticante dell’arcano, appressati, e se io coglierò il nome tuo vero, sapienza tua dovrai cedere in cambio di tua libertà.
CARLO (attirando l’attenzione di Erik) Nobile, quale tu fosti un giorno, fatti nuovamente al cospetto di quelli che nobile volontà servono...
ERIK (tra sé, fissando Carlo) Occhi stretti si dice essere di doppiezza e furtività segno.
CARLO (a Erik, ignorando l’interruzione) Ritorna, con l’occhio tuo, ai dì in cui, fievole lume che al primo soffio d’infante vacilla, il senno spento ancora non s’era...
ERIK (a Olaf, parlando di Carlo) Solo a me pare o, simili al vitale crine della gorgone, la bionda chioma sua da sé movimento si da anche senza vento? (non avendo risposta da Olaf, alla Guardia) Che d’è? Il solo nominare la venefica e funesta criniera lo fa quale una marmorea statua?
GUARDIA (ad Erik) Nobile signore, credo che orecchio prestare dovresti a quello che il fiero giovane ha da chiederti.
ERIK Se orecchio prestassi a chicchessia come potrei intendere l’altrui favella? Il naso forse, un piede certamente, a nolo potrei darli, ma l’auricolare padiglione che guida fa ai suoni che pigione mi darebbe che compensi il non udire l’altrui intenzione?
CARLO (riguadagnando l’attenzione di Erik) Un degno figlio d’alto padre, quale tu fosti, ascolto presterebbe a quel che a lui chiedono foresti...
ERIK E che vanno dunque chiedendo coloro che del ligneo popolo son parte? O sono di quei che d’erba, e di fungina famiglia, hanno natali? Mi par d’aver udito che messi, di quelli che la foglia veste lievemente, in viaggio fossero verso l’avita magione. (a Birger) Nils mio, buon camerlengo, quand’essi a giungere avessero alle porte nostre, fa loro preparare d’acqua di fonte un ditale, affinché loro sete abbia a placarsi, e fa tritare una castagna, per mitigar lor fame per il lungo viaggio. (a Olaf e la Guardia) E dite, gran signori, che pari n’hanno pochi in danese terra, quali nuove d’Elsinore? In salute resta, l’augusto vostro re? Invero me ne dispiaccio: quale gran dono a farsi sarebbe, a un galantuomo di quelli di mia schiatta, notizia di sua fine? Ad uno dei rami di suo invernale giardino, gradito frutto alle svedesi genti, potrebbe pendere maturo e pronto da cogliere.
CARLO (a parte a Birger) Ben l’intendesti, buon maniscalco? In occhi suoi, orbi al mondo, ebbe a vederti quale suo camerlengo.
BIRGER (a parte a Carlo) L’intesi, ma giovamento alcuno vedo di questa nuova scienza nostra, ed anzi, con licenza, a rammentare antichi costumi m’affretto e, allor che a un morto assimilato fui, infausta fine ben rifuggo.
OLAF (alla Guardia) Di ogni insano pensiero che sconvolto suo cervello ebbe in sorte, invero almeno uno c’è che anche i savi a condivisione muovere potrebbe.
CARLO (a parte a Birger) In te ravvide quei che, maggiore ad altri che prestavano affabile servizio tra le bianche mura, a lui più prossimo d’ognuno era, di bocca sua sola traeva comando, e di prezioso ferro aveva notizia. E se quella decolla testa a lui tornasse a chiedere e dare conto?
BIRGER (a parte a Carlo) Ardiresti dunque a dare proditorio tuo supporto a follia sua per trarne giovamento? E sia, mio acuto compagno: si faccia di follia arma contro follia stessa volta. Ma tale ardito intento tuo preparazione alcuna, seppur minuta, abbisogna, e quindi si vada a far che, senza gran costume, due viventi si facciano uno spettro, per ingannare ingannati sensi.
(Escono Carlo e Birger)
GUARDIA (a Olaf) Mio buon signore, che caso è questo che, quale orrorifica visione, tanto lesti lontan quei due mena? Di ciò che questo disse non s’intende senno che piede avesse a fare lesto.
OLAF (alla Guardia) Parer potrebbe quasi, se così certamente non fosse, che la cerebrale febbre, che a questo scellerato saggezza tolse, abbia avuto agio a contagiare quelli che il senno ancora tiene. Ma eccoli che tornano tanto lesti... E della calce il colore preso hanno i visi loro e loro vesti...
(Entrano Carlo – che va a mettersi di fronte ad Erik – e Birger che lo segue, nascosto dietro il suo corpo, tenendo la testa appoggiata sulla mano di Carlo, che la tiene come avesse un elmo al fianco)
ERIK (urlando alla vista della testa di Birger) Oh angeli del cielo! E santi tutti in corte giunti, quello che morto era si ripresenta latore di oscuri segreti quali la morte sola ha da dare scienza. (a Birger, compassionevole) Non più uno, caro Nils, come in vita fosti, ma in parti diviso, come il boia tenne giusto fare per compimento porre a suo dovere.
BIRGER E CARLO Il sire mio alto tenga quello che a suo dovere mai osa mancare: financo ora che di testa il collo mio s’è disadorno, al suo comando mi vengo a presentare. Disponi, signor mio, come tu credi, che, per parte mia, i compiti saranno assolti e volontà sarà volta ad azione.
GUARDIA (a parte a Olaf) Dunque quel che cerusici crederono accadere non potesse ebbe a farsi fatto? Follia a trasmettere s’ebbe? Quelli che parevano giovani di chiaro intelletto, si fanno scellerati ed al folle prestano diletto?
ERIK La fredda lama, ch’ebbe a lambire dimora di tuo discernimento, ben ti fece giacché in vita lesto sempre meno fosti che in morte.
BIRGER E CARLO Pronto mi porto, quale solo è chi tempo poco ha prima che destino suo abbia a darsi a conclusione. A riferire vengo che non tutta quella ch’era volontà tua ebbi a fare a piena forma prima che sovrana ira ebbe a farmi quale sono.
ERIK Di che parli? Di che vai cianciando? Anche in nero lutto l’anima tua servile si porta, com’è giusto, ma notizia reca di mancanza sua? Vergognoso fosti molto in vita ed ora che, in mortifero sudario t’avvolti, spudorato ti fai?
BIRGER E CARLO Non spudorato, ma mite, e onesto, a riferire supplice di mia colpa: del gran tesoro che di Kalmar venne, disposto tutto non fu come il signore nostro deciso s’ebbe.
OLAF (a parte alla Guardia) Arguzia si fece di follia manto, e tanto forte è l’ingegnoso capo che, financo chi saldo ha suo senno, in tranello teso, distratto, si pone.
ERIK Quale ultima tua colpa riveli, ora che dai vivi nulla più temi?
BIRGER E CARLO Quella che, preziosa ed eroica reliquia, della forte città a noi pervenne, ebbi a perdere di mia cognizione, tanto sovrana volontà a comando mi tenne. Eppure, ora che altra e nera sovrana m’incorre di servire, mi fu concesso di rimedio porre a mia mancanza. Sia dunque ancora in me tua decisione, e d’oltre quella che fu mia tomba, io disporrò acché quel che l’animo tuo volle fatto sia come aveva ad essere.
ERIK Che vai dicendo, visione scellerata? Il capo tuo, che smarrito ha il corpo, memoria sua del pari ha perso forse? Cento volte vidi il lucente ferro ornare degnamente il chiaro marmo che, del primo suo padrone, forma assunse in momento di suo cimento. Là, nella guerresca sala d’onde i messi ai generali lesti muovono...
(Escono Carlo e Birger, precipitosamente e senza dire una parola)
OLAF Quel ch’era in loro bisogno scoprire, i nostri arguti segugi trovato l’hanno. Libertà di questo scervellato ha termine suo dunque. Tuo dovere fa, vigile guardia, rendendo a comoda sua forte dimora quello che il sire nostro decise avesse sbarre per pareti, e sii lesto a perdere memoria di quello che qui oggi non accadde, che l’accorto smemorato avrà compenso ch’era stato concordato per servigio che a fare non s’ebbe. Per conto mio, curiosità in animo mio si pose, e di questa cerca misteriosa vo a scoprire conclusione.
GUARDIA Non tema il signor mio la memoria mia fallace: ciò che non accadde non lasciò traccia che mente savia abbia a conservare. Quanto all’ospite mio che tanto curo, già ben lo vedo perso nuovamente in suoi febbrili vaneggiamenti, quindi male non n’avrà a fare quei pochi passi che da ferrea casa l’hanno a discostare.
(Escono la Guardia ed Erik da una parte e Olaf dall’altra)
(Entrano Giovanni – incoronato –, Olaf, Carlo, Birger, Caterina e nobili del seguito)
GIOVANNI Qual è l’uso del giusto oste, che non trae di altrui vinifica opera suo orgoglio, signori gentili, che sorte e cielo volle in questo lieto giorno testimoni di pace e gran successo, a voi io rendo lode prima che a me stesso: senza l’abilità vostra, i prodigi molti di questo fausto giorno non sarebbero.
CATERINA L’aureo cerchio che t’incorona delle svedesi genti degno sovrano, non altri potrebbe in capo tenere, è dunque opera giusta e buona, al nostro nuovo re, rendere lode.
OLAF Opera nostra, buon signore, a nulla varrebbe se minore fosse mai la guida che serviamo, non sia, quindi, eccessivamente umile l’animo tuo, che i grandi cieli incoronato vollero.
GIOVANNI Come gli antichi sovrani, nel momento di prendere corona e ricevere di vittoria l’agognato frutto, comando regale do che al “Te Deum” sia data voce in ogni chiesa di Stoccolma, e sia dato ordine, a quei che conio batte, che la regale effigie mia, in oro, circondata sia del templare motto “Non nobis domine”, che a noi faccia memoria che, quella ch’è terrena gloria, nulla vale al cospetto dei celesti. E onori siano resi a quelli che, sopra quei che maggiori a loro sono, misero ingegno a nobile impresa e fecero dono santo a quello che li guida, e ha da render loro quel che loro spetta. A quello che di Goteborg venne di Polonia venendo, quello che fu suo sia nuovamente, e a quello che, maniscalco, venne a far prodigio, sia data, della bella sua Kalmar, autorità e giusto appannaggio.
CARLO E BIRGER Come il sire nostro, giustamente, a dire s’ebbe, “Non nobis domine”. E parole queste siano, in pietra e inchiostro, fatte e siano motto nostro e di quei che di noi discende.
(Entra un Servitore)
SERVITORE Ai nobili signori, che il cielo grandi fece di nascita e d’imprese, di saggezza e di pazienza, non risulti invisa mia fugace presenza. L’opera che ci si affidò noi, servi loro, svolgemmo. Opera nostra è fatta, e gradita speriamo vi risulti.
BIRGER L’umile che, onesto, fa sua parte, plauso si guadagna onestamente.
CARLO E quello che lui plaude ha animo nobile, e benedizioni n’ha sentitamente.
Atto Primo
Scena I
Il salone delle udienze del palazzo reale di Stoccolma
Il salone delle udienze del palazzo reale di Stoccolma
Scena II
c.s.
c.s.
Scena III
c.s.
c.s.
Scena IV
Le prigioni del castello di Stoccolma
Le prigioni del castello di Stoccolma
Scena V
Un’altra sala delle prigioni del castello di Stoccolma
Un’altra sala delle prigioni del castello di Stoccolma
Scena VI
Il salone delle udienze del palazzo reale di Stoccolma
Il salone delle udienze del palazzo reale di Stoccolma
Sipario